I dannati della Libia
Il dolore è scritto sulla pelle, nei corpi, ma il vissuto di chi è stato torturato e violentato nei «mezra», depositi di umanità, in Libia viene fuori a poco a poco, prima negli incubi o con strani disturbi fisici. Cinque anni di storie raccolti all’ospedale di Senigallia
Il dolore è scritto sulla pelle, nei corpi, ma il vissuto di chi è stato torturato e violentato nei «mezra», depositi di umanità, in Libia viene fuori a poco a poco, prima negli incubi o con strani disturbi fisici. Cinque anni di storie raccolti all’ospedale di Senigallia
Quando dall’entrata principale con l’ascensore saliamo al sesto piano, i reparti amministrativi dell’ospedale di Senigallia dove incontro Stefania Pagani sono deserti. Lei è una dottoressa bionda, piccola di statura, e un viso espressivo con grandi occhi castani, l’accento ibrido mescola il tarantino d’origine che circola in quello marchigiano della terra dove si è trasferita da adolescente.
NEGLI ULTIMI CINQUE ANNI come medico legale ha visitato e ascoltato le storie tragiche di più di trecento richiedenti asilo, arrivati dagli Sprar e dai centri di accoglienza (Cas) della Prefettura. Ha visitato soprattutto giovani con meno di trent’anni, donne e uomini, venuti da Ghana, Senegal, tanti dalla Nigeria, una nazione divisa da tensioni etniche tra cristiani e musulmani, ma anche dal Gambia, dalla Costa D’Avorio, dilaniata da una guerra civile, dal Mali, dove imperversano le insurrezioni jihadiste. Donne e uomini che avevano affrontato il deserto, e li accumunava aver subito torture, gente scappata da guerre, perseguitata per motivi religiosi o di orientamento sessuale.
PIÙ DI TRECENTO, racconta. «La medicina forense umanitaria viene incontro alle persone che attraverso le loro storie raccontano di aver subito violenze, nel corpo e nella psiche», dice, seria e decisa. E allora lei, quando incontra una persona, quando questa entra nell’ambulatorio, comincia a leggerla, decifra le ferite sugli arti, le mutilazioni. «I segni che hanno sulla pelle, sui corpi»- dice ancora – «raccontano già il dolore e i drammi, il corpo diventa testimone».
NELLE PRIGIONI LIBICHE i torturatori più efficaci sono quelli in grado di esercitare una violenza che più si avvicina al confine con la morte, i volts da non superare durante le scariche elettriche inferte sui genitali, per non provocare l’arresto cardiaco, l’acqua bollente versata da grandi pentole sulle braccia o sul ventre. Quelli più esperti nella pratica della falaka o falanga sanno come colpire le piante dei piedi con spranghe di ferro di uomini legati tenuti a testa in giù che urlano terrorizzati e non riusciranno più a camminare per mesi. Lo spavento che provocano, deve restare a vita nella memoria e nei cuori palpitanti di quelle persone. Questa è la nota situazione in Libia dopo l’accordo tra il governo Gentiloni e quello di Fayez Al Sarraj, definito disumano dalle Nazioni Unite, che ha fatto dire all’Alto commissario Zeid Raad Al Hussein: «La sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità».
QUEI RICORDI e quelle paure spesso si spostano nella vita onirica e diventano incubi. Stefania dice che non è facile farli parlare, «ci vuole tempo», riferisce mentre prendo appunti sul mio taccuino e siamo da una parte e dall’altra di una lunga scrivania. «Inizialmente raccontano di avere disturbi del sonno, cefalee persistenti, somatizzazioni. Ma gli esami sono sempre negativi, perché sono i sintomi di qualcosa di molto più profondo». Raccontano solo la punta dell’iceberg.
UNA RAGAZZA che aveva subìto violenze sessuali di gruppo lungo la traversata nel deserto – racconta – «nella memoria del corpo aveva sviluppato una serie di sintomi, aveva dolore all’orecchio, non sentiva bene, avvertiva un ronzio, e poi lamentava bruciore agli occhi». Gli esami anche nel suo caso furono negativi. Mentre la violentavano, le avevano gettato sabbia negli occhi e fatto tagli alle gambe. «Era piccola, graziosa, impaurita da morire», dice Stefania, sorridendo con dolcezza.
«IL RACCONTO di un sintomo di un ghanese non è uguale a quello di un italiano o di un francese, sono sempre affiancata da mediatori culturali capaci di interpretare i segni e i sintomi, ma prima deve svilupparsi tra me e loro un’empatia, e poi una vera e propria alleanza terapeutica». I mediatori a volte piangono, si commuovono, «perché quando ascolti una storia di violenza della tua terra, è come se facessero una violenza anche a te». Quella sessuale nelle carceri libiche è una forma etologica di dominio. Le donne sono spesso stuprate, anche le bambine sono costrette a fare sesso con i miliziani, e quando ne arrivano di nuove, i carcerieri scelgono quelle tra di loro fisicamente più debilitate o incinte e le uccidono, poi chiedono alle sopravvissute di pulire in terra le macchie di sangue versato e di sotterrare i corpi. Di ognuno si deve ricostruire la storia, ma a volte alcuni hanno crisi di pianto o alterazioni spazio temporali, ci sono ragazzi che hanno subìto abusi da persone dello stesso sesso, costretti a rapporti anali, violati in gruppo da detenuti minacciati dai carcerieri che urlavano “violentatelo o vi uccido!”».
Quando queste persone arrivano, intimidite nell’ambulatorio, Stefania Pagani si mette pazientemente in ascolto, poi li fa spogliare e accomodare sul lettino. «Certificare che certi segni sono compatibili con le storie raccontate, per loro ha un grande valore, riesce a ridare una dignità alla persona, la tortura ha invece l’obiettivo di distruggere», dice abbassando il tono di voce e diventando più intima.
Alessandro Leogrande ne La frontiera (Feltrinelli,) il libro che meglio ha raccontato questi nuovi dannati della terra, riferisce alla perfezione cosa significa tutto questo: «Alla base di ogni viaggio c’è un fondo oscuro, una zona d’ombra che raramente viene rivelata, neanche a se stessi. Un groviglio di pulsioni e ferite segrete che spesso rimangono tali. Ma capita altre volte che ci siano dei viaggiatori che ne hanno passate così tante da esserne saturi. Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto subire, nauseati dall’odore della morte che hanno avvicinato, da non voler far altro che parlarne».
UNO DEGLI ULTIMI CASI di cui Stefania si è occupata, riguardava un ragazzo africano vissuto per due anni nelle prigioni libiche. «Si riteneva fortunato perché era arrivato vivo qui per raccontare la sua storia, da testimone, anche per i tanti che non ce l’avevano fatta». Mi riferisce quella di un ragazzo africano giovanissimo che a otto anni è andato a lavorare in un Paese lontano.
Minorenne, è assoldato e costretto a combattere da un gruppo di ribelli, torturato e obbligato a uccidere sotto l’effetto di droghe, poi a scavare fosse dove mettere i corpi. Durante la visita, ricordando quelle storie, diceva a Stefania che non doveva avere paura di lui, li aveva uccisi ma non era un assassino. «Il suo cruccio era che le persone potessero giudicarlo per le cose che raccontava» dice la dottoressa. Era fuggito, aveva attraversato il Mali, il Burkina Faso, poi era arrivato in Libia. Lì era stato catturato e portato nei «magazzini», i mezra, dove i trafficanti di esseri umani segregano le persone. Lì sono torturati, privati delle unghie, le gambe legate con una corda, il corpo viene sollevato, e colpito in modo continuativo fino a tramortirlo.
Un altro ragazzo, raccontava che per umiliarlo lo facevano camminare accosciato in un terreno pietroso. «Aveva escoriazioni sulle gambe, sulle mani», ricorda di quella visita. Il più delle volte si fa raccontare la parte di storia finalizzata alla valutazione del trauma, «non dall’inizio, però, per non ritraumatizzare: il fatto di dover raccontare troppe volte, nel ricordo può riacutizzare il dolore».
È UN LAVORO che si fa in équipe, altri medici intervengono singolarmente, c’è sempre uno psichiatra, così come può esserci un dermatologo, un vulnologo capace di valutare ustioni e lesioni della cute. «La loro pelle è diversa, tende a fare cheloidi in maniera superiore alla pelle chiara».
Mi fa vedere alcune foto che ha sul display del telefonino, sono parti di corpi che appartengono a persone che hanno subìto violenze, immagini atroci di mani o di piedi ai quali sono state amputate dita, segni di arma da taglio sul petto, stampi di frustate sulla schiena. Alcuni altri hanno scarificazioni, segni o incisioni tribali, simboli di appartenenza a gruppi etnici-religiosi: ormai è capace di riconoscere anche quelli. Essendo un medico imparziale, questo lo ripete più volte, deve solo capire se il segno è verosimile, «mi limito a dare una compatibilità a una lesione, riconducibile a una violenza particolare, devi far capire loro che non sei lì per giudicarli, il tuo compito è valutare se la manifestazione fisica e i segni sono compatibili con ciò che raccontano».
Molti non sanno se riusciranno mai a dimenticare lo strazio di quello che hanno vissuto, «sono persone che soffrono incubi notturni, alcuni hanno subìto più lutti, prima violenze nel loro Paese, poi hanno perso amici e parenti lungo la traversata».
UNO DI LORO – penso mentre stiamo attraversando il lungo corridoio, avvicinandoci lentamente all’uscita – si chiamava Emmanuel Chidi Nabdi. Cristiano, con la moglie Chinyere era scappato dalla Nigeria dalla violenza terrorista dei fondamentalisti islamici di Boko Haram. Usciti salvi all’assalto a una chiesa, nell’esplosione avevano già perso una figlia e i genitori. Durante la traversata dalla Libia verso Palermo sua moglie incinta è stata picchiata e ha abortito. Lui è stato ucciso il 5 luglio di due anni fa a Fermo, nella mia città, da un razzista che prima di colpirlo con un pugno ha chiamato la sua sposa «scimmia africana».
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