Al Walaja non sarà il «villaggio più bello della Palestina» come vuole un antico detto di queste parti ma certo è un luogo molto piacevole. Segnato nei registri ottomani già dal 1600, situato nelle valli tra Gerusalemme e Betlemme, punteggiato dagli alberi di olivo e predisposto per le coltivazioni, Al Walaja potrebbe donare ai suoi tremila abitanti una esistenza tranquilla. «Invece la nostra vita è un inferno» dice al manifesto Khader Araj il sindaco. «Siamo soffocati dalle carte – ci spiega – quelle dei ricorsi che continuiamo a presentare (alle corti israeliane) per tutelare, senza successo, le nostre case dalle demolizioni. Dal 1° gennaio le ruspe israeliane hanno demolito 12 abitazioni, le ultime appena tre giorni fa». Lunedì il lungo braccio di un bulldozer ha ridotto in macerie cinque case, una della famiglia Abu Rizek e quattro della Abu Tin. «Erano state costruite senza il permesso edilizio, ma gli israeliani non ci autorizzano mai a edificare nuove case e i nostri figli come possono crearsi un futuro. Intorno a noi vediamo crescere le colonie di Gilo e Har Gilo (illegali per la legge internazionale), costruite sulle nostre terre e quelle di Beit Jala e Sharafat».

L’INFERNO di Al Walaja ha due origini: la guerra del 1967 e gli accordi di Oslo. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, il villaggio come tutta la Cisgiordania e Gerusalemme est fu posto sotto occupazione militare. Israele ridisegnò i confini municipali di Gerusalemme, annettendosi metà della terra di Al Walaja sulla Linea verde dell’armistizio. Per decine di famiglie fu la rovina economica. Perduti i terreni agricoli, molti smisero di fare i contadini per diventare manovali pagati a giornata. Dopo gli accordi di Oslo II nel 1995, il 2,6% del territorio di Al Walaja venne classificato come Area B della Cisgiordania, amministrato civilmente dai palestinesi ma sotto il controllo di sicurezza di Israele, mentre il restante 97,4% rientrò nella Area C, il 60% della Cisgiordania sotto il controllo totale delle autorità militari israeliane. Successivamente il Muro di separazione alzato da Israele tra Cisgiordania e Gerusalemme isolò il villaggio, lasciando ai suoi abitanti un solo punto di entrata e uscita e grandi difficoltà nell’ottenere i permessi per raggiungere le terre coltivate dall’altra parte della barriera. Nel 2019, un contadino fu multato per aver raccolto le olive nelle sue terre dichiarate «parco naturale» della colonia di Gilo. E mentre Al Walaja vede demolite le sue case dal comune di Gerusalemme, i suoi abitanti restano residenti della Cisgiordania, non autorizzati a entrare nella Città santa.

«I TERRENI di queste ultime demolizioni fanno parte del distretto di Betlemme, ma per Israele appartengono a Gerusalemme», dice Amr un attivista locale. «Fanno pressione su di noi – aggiunge – vogliono costringerci a lasciare il villaggio e le terre che ci restano. In questo modo potranno espandere le colonie che ci circondano». Dal 2010 a oggi ad Al Walaja sono state demolite un centinaio di case e strutture varie, oltre a ricoveri per gli animali. Nel resto della Cisgiordania non è andata meglio. Nei primi sei mesi dell’anno, sono stati distrutti 318 edifici palestinesi. «Gli israeliani non ci consegnano il piano regolatore per Al Walaja. Vogliono solo cacciarci via dalla terra in cui viviamo da secoli. 30 case rischiano di essere distrutte molto presto», dice il sindaco Khader Araj.

NON SOLO a ridosso di Gerusalemme est, anche nel centro della zona araba della città, a ridosso delle antiche mura, si vive nell’ansia di demolizioni ed espulsioni. A Batn al Hawa, un’area nel quartiere di Silwan, 20 edifici rischiano di diventare in ogni momento cumuli di pietre e detriti o di passare agli originari «proprietari israeliani». Una famiglia palestinese, la Ghaith, nella sua casa dal 1979, nei giorni scorsi ha perduto l’ultimo ricorso davanti alle corti israeliane. Secondo i giudici l’abitazione un centinaio di anni fa – quindi prima della fondazione dello Stato di Israele – apparteneva a una famiglia ebraica. I Ghaith temono di dover abbandonare subito la casa e presto potrebbe toccare a altre due famiglie. 700 palestinesi di Batn al Hawa rischiano di essere cacciati via. La questione si trascina da anni a Silwan, una delle zone di Gerusalemme est a più alta penetrazione dei coloni perché ritenuta dagli archeologi biblici l’area in cui sorgeva la cittadella di Re Davide.

MOTORE della conquista israeliana di Silwan è l’organizzazione di estrema destra religiosa Ateret Cohanim, che afferma di lavorare «da oltre 40 anni per ripristinare la vita ebraica nel cuore dell’antica Gerusalemme». Il gruppo sostiene che gran parte di Batn al Hawa si troverebbe sul sito di un villaggio costruito da un trust filantropico sotto il dominio ottomano alla fine del XIX secolo per ospitare ebrei yemeniti evacuati dai britannici negli anni ‘30. Una legge del 1970 consente agli ebrei il diritto di reclamare proprietà a Gerusalemme est. Non è così per i residenti palestinesi con le proprietà arabe confiscate dallo Stato di Israele dopo il 1948. Già 41 famiglie di coloni israeliani vivono a Batn al Hawa.

IL PALESTINESE Anwar Rajabi scuote la testa. «Tirano fuori tutte queste storie ma noi viviamo in questa casa da 60 anni – commenta – e abbiamo il diritto di rimanerci».