«Homo faber», l’arte del sapere fare giapponese
Non c’è cornice più adeguata per la mostra Homo Faber della splendida Venezia, dove anche i nomi delle calli e dei ponti scritti sui nizioleti, le insegne direzionali che si trovano sulle facciate dei palazzi, evocano gli antichi mestieri e le arti tramandate con sapienza di generazione in generazione, ma anche l’esistenza di corporazioni e scuole che li regolava sin dal XII secolo, come la calle de l’Indorador (artigiani che applicavano la foglia d’oro sui decori), dei Battioro (artigiani della foglia d’oro), quella dei Botteri (bottai), dei Baretteri (cappellieri), dei Stagneri (lavoratori dello stagno), del Manganer (lavoratori della lana e della seta), della Casselleria (costruttori di cassettoni di legno), degli Spaderi e Cortelleri (specializzati in spade e coltelleria), degli Specchieri.
Tracce che rimangono nonostante la maggior parte di questi mestieri e i loro laboratori siano scomparsi, mentre dall’altra parte del mondo, in Giappone, il Paese ospite di questa rassegna rimandata per ben due volte a causa della pandemia, chi possiede l’arte del saper fare è insignito dal governo del titolo di Ningen kokuho, ovvero «tesoro nazionale vivente». È il know-how materiale, tecnico, manuale acquisito e tramandato ai posteri ad essere salvaguardato attraverso la persona che se ne fa tramite.
PER QUESTO ad essere presentati nella mostra Il giardino delle 12 pietre – curata da uno dei più importanti designer giapponesi, Fukasawa Naoto, direttore artistico del marchio Muji nonché del Museo del folklore giapponese di Tokyo (il Mingeikan), insieme a Uchida Tokugo, curatore del Moa Museum e del Hakone Museum of Art – sono dodici maestri «tesori nazionali viventi» specializzati nelle aree più rappresentative della tradizione artigianale giapponese: Isezaki Jun per la ceramica Bizen di cui rinnova le forme, Fukushima Zenzo per la porcellana dal peculiare colore celadon e dalle forme ovoidali importanti, Imaemon XIV per la porcellana decorata Nabeshima, Kitamura Takeshi riconosciuto tesoro per due specialità di tessitura (ra e tate-nishiki), Sasaki Sonoko per la tessitura tsumugi e Moriguchi per la tintura tessile yuzen, Onishi Isao per la lacca urushi di tipo kyushitsu e Murose Kazumi per la lacca maki-e intarsiata in oro e madreperla, Ōsumi Yukie per la forgiatura dell’argento, Suda Kenji per l’intarsio in legno, Fujinuma Noboru per la lavorazione del bambù a intreccio, Hayashi Komao per le bambole toso.
Il luogo scelto per il Giappone nel contesto della Fondazione Cini sull’Isola di San Giorgio, interamente occupata dalle 15 mostre Homo Faber con opere da 43 Paesi, è quello del Cenacolo Palladiano con la riproduzione digitale fac-simile delle Nozze di Cana di Paolo Veronese con cui i curatori hanno scelto di far dialogare le semplici forme di una difficile selezione di manufatti ben noti al pubblico giapponese con i colori e lo spazio italiani, usando bassi parallelepipedi bianchi con tagli diversi, che nel progetto originale era previsto fossero in marmo di Carrara, idea poi abbandonata a causa dei costi. L’idea visivamente rimanda ai giardini secchi composti di soli sassi e ghiaia (karensansui) tipici dei templi zen, ma metaforicamente sottolinea il ruolo chiave di ciascun «tesoro vivente» come «bene culturale intangibile», come le foto e le installazioni video curati dalla fotografa Rinko Kawauchi documentano.
È IL SAPER FARE inteso come dedizione in termini di tempo ed energie, di cura del particolare, il fare stesso prima ancora che il risultato finale, insieme la mano dell’uomo e l’armonia con i materiali offerti dalla natura che in Giappone assume un significato particolare; un significato che viene condensato in un termine bello anche nel suono: temahima, «mani (cioè lavoro) e tempo dedicati».
È CHIARO CHE ALLA BASE di una tale visione c’è una cultura in cui originariamente non vi era divisione tra arti e artigianato, e neppure tra pittura e calligrafia, tutte le forme creative rientravano nella stessa categoria di geijutsu, per cui gli aspetti decorativo e artistico si sono evoluti in simbiosi. Un aspetto che evidentemente continua ad affascinare l’Occidente quando entra a contatto con prodotti frutto di una visione così lontana di cui talvolta assimila la semplificazione delle forme, talvolta il colorismo, in altri casi una sensibilità nuova verso i materiali naturali come tante opere di artigiani europei e italiani esposti nella sezione ad hoc «Italia e Giappone: le relazioni meravigliose» (Sala del Chiostro dei Cipressi) testimoniano.
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