Europa

«Ho subito abusi fisici e verbali», ma l’uomo con il cappello non era lui

«Ho subito abusi fisici e verbali», ma l’uomo con il cappello non era luiControlli per la sicurezza attorno all'aeroporto di Bruxelles dopo gli attacchi terroristici. Sotto Fayçal Cheffou e il vero uomo con il cappello Mohamed Abrini – LaPresse

Intervista a Fayçal Cheffou Scambiato per l'attentatore Mohamed Abrini, il giovane giornalista free-lance racconta i giorni da incubo in prigione: «In tv parlavano di me come il terrorista, senza il condizionale. Quando mi hanno trasferisferito a Forest mi hanno privato di tutto tranne di un rasoio perché, mi hanno detto, 'potrebbe servirti'». L'accusa di partecipare a un gruppo terroristico non è caduta

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 22 marzo 2017

«Quello che mi è successo ha dell’incredibile» racconta Fayçal Cheffou, giovane giornalista free-lance belga d’origine marocchina, accusato di essere uno dei terroristi del commando del 22 marzo scorso. Per gli inquirenti Fayçal è l’«uomo con il cappello», filmato in compagnia dei due kamikaze che si sono fatti esplodere all’aeroporto di Zaventem. Un errore: l’«uomo con il cappello» risulterà poi essere Mohamed Abrini, amico d’infanzia di Salah Abdeslam unico sopravvissuto del commando di Parigi.

 

Faycal-Cheffou

Secondo la ricostruzione degli inquirenti l’«uomo con il cappello» è l’unico dei tre attentatori che cerca di camuffare il proprio aspetto e che lascia incolume l’aeroporto, dopo il caos provocato dalle esplosioni, per dirigersi a piedi verso il centro città dove, circa un’ora dopo, un altro attentatore si fa esplodere all’interno di una carrozza della metropolitana nel quartiere europeo.

«Da quando mi hanno accusato di partecipazione a un gruppo terrorista non vivo più» racconta Faycal. L’appuntamento per l’intervista è in un caffé nel quartiere europeo, dove Fayçal vive, a soli 10 minuti a piedi dalla stazione di Maelbeek. «Il giorno degli attentati mi sono recato sul luogo dell’esplosione. Sono un giornalista e quindi trovo assolutamente normale documentare l’accaduto. A causa dei miei lineamenti nord-africani, vengono più volte fermato e controllato. E potrei anche capire le ragioni di questa particolare attenzione» dice sorridendo. Gli inquirenti interpretano i suoi spostamenti come il proseguo del tragitto dell’«uomo con il cappello» il quale avrebbe continuano il proprio percorso iniziato all’aeroporto di Zaventem, circa un’ora prima, passando vicino all’abitazione del giovane giornalista che (probabilmente) proprio in quel momento usciva di casa per recarsi alla stazione di Maelbeek.

Due giorni dopo, il 24 marzo, Fayçal viene fermato. «L’arresto è avvenuto quando ero in macchina per accompagnare un amico all’aeroporto, quando due vetture ci hanno tagliato la strada. Diversi uomini ci hanno puntato le armi intimandoci di scendere. Erano convinti che fossimo armati e pronti a farci esplodere. Ero terrorizzato».

La polizia belga, nei palpitanti giorni che seguono gli attentati, segnati dalle critiche rivolte al sistema di sicurezza e ai servizi d’intelligence, dichiara di aver arrestato l’«uomo con il cappello» che gli inquirenti identificano inizialmente proprio in Fayçal Cheffou. Gli elementi che convalidano le accuse sono la sua presenza alla stazione della metropolitana di Maelbeek il giorno degli attentati, la conoscenza di un presunto foreign fighter nel suo entourage e soprattutto il riconoscimento visivo del tassista che la mattina del 22 marzo prende in carico la corsa che porterà i tre terroristi all’aeroporto di Zaventem. I tabulati telefonici confermano però che Fayçal era nel suo appartamento quando gli ordigni esplodono. A scagionarlo definitivamente in qualità di «uomo con il cappello» è la prova del Dna che invece porterà gli inquirenti alla cattura di Mohamed Abrini.  

Fayçal Cheffou

 

 

La detenzione di Fayçal dura quattro giorni durante i quali, secondo la sua versione dei fatti, subisce diversi abusi verbali e fisici. «Non mi hanno dato da bere e da mangiare per i primi due giorni. Sono stato privato dei miei abiti, ufficialmente per l’analisi di tracce d’esplosivo, ricevendo in cambio una salopette di colore arancione. Come a Guantanamo» racconta con amara ironia. «Il peggio arriva la terza notte. Sono oggetto di ogni tipo d’insulto e quando reagisco inizia la violenza: vengo denudato e aggredito fisicamente. Ho passato tutta la notte nudo sul pavimento. Il giorno dopo mi hanno vestito di forza mentre chiedevo che un medico mi visitasse. Quando mi trasferiscono nella prigione di Forest mi privano di tutto tranne di un rasoio poiché, mi dicono, potrebbe servirmi» sottolinea Fayçal che aggiunge «durante questa detenzione c’era un controllo con accensione della luce ogni 15 minuti. Di notte non riuscivo a dormire. Ricevo qui il mio primo pasto dove però c’erano chiaramente diversi sputi, allora decido di non mangiare più». Secondo la versione di Fayçal, nonostante sia privato di ogni tipo di bene presente nella cella a esclusione del letto, gli viene recapitata una televisione. «Tutti parlavano di me come il terrorista senza l’uso del condizionale. Per tutti sono io l’uomo con il cappello. Credo veramente di aver rischiato di impazzire. Vengo finalmente a conoscenza di essere stato scagionato dalla televisione che avevo in cella. Uscendo mi sono rivolto al direttore del penitenziario dicendogli che avrei sicuramente agito legalmente nei suoi confronti».

Nonostante Fayçal sia scagionato dall’accusa di essere il terrorista noto come l’«uomo con il cappello», l’accusa di partecipazione a un gruppo terrorista non cade. Fayçal Cheffou viene interpellato per altri casi legati al terrorismo di matrice cosiddetta islamica. In tutti i casi nessun elemento ha indotto gli inquirenti a procedere nei sui confronti.

«Ho imparato a fare un distinguo fra polizia e giustizia e ad avere fiducia nella giustizia che ha sempre portato la verità a galla. Non ho però fiducia nella polizia e devo ammettere che oggi vivo nella paura per l’incolumità della mia persona».

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