Hervé Le Corre, il blues della solitudine nelle vie di Bordeaux
L'intervista Parla l’autore di «Attraversare la notte», in libreria per e/o. Uno dei protagonisti del noir transalpino racconta una città livida, scossa dalla violenza e dalla paura. «Nel romanzo, il contesto politico non è in primo piano. Ci sono invece la miseria, economica o affettiva, la violenza sociale o criminale, la solitudine: il mondo in cui viviamo». «Ho scritto questa storia all'inizio della pandemia. La sofferenza, il confinamento e l’emergere di un mondo che pensavamo di non vedere mai: tutta l’oscurità del periodo è racchiusa in queste pagine»
L'intervista Parla l’autore di «Attraversare la notte», in libreria per e/o. Uno dei protagonisti del noir transalpino racconta una città livida, scossa dalla violenza e dalla paura. «Nel romanzo, il contesto politico non è in primo piano. Ci sono invece la miseria, economica o affettiva, la violenza sociale o criminale, la solitudine: il mondo in cui viviamo». «Ho scritto questa storia all'inizio della pandemia. La sofferenza, il confinamento e l’emergere di un mondo che pensavamo di non vedere mai: tutta l’oscurità del periodo è racchiusa in queste pagine»
Una Bordeaux livida, oppressa da una pioggia costante che rende tutto uniforme e ugualmente soffocante. È questo lo scenario nel quale le traiettorie di Jourdan, Louise e Christian finiscono per incrociarsi. Le loro vite scorrono nel segno di una solitudine che non di rado si trasforma in violenza, sempre in paura o minaccia. Eppure nulla sembrerebbe unirli visto che il primo è un comandante della polizia giudiziaria, la seconda una giovane donna che prova a rialzarsi dopo una serie di sconfitte e il terzo un individuo pronto a esplodere e a trasformarsi in uno strumento di morte. Con Attraversare la notte (e/o, pp. 298, euro 19, traduzione di Alberto Bracci Testasecca), un romanzo dalle atmosfere implacabili ma pronto a rivelare squarci di selvaggia umanità, Hervé Le Corre si conferma come uno dei protagonisti del noir transalpino e una delle figure più significative del nuovo romanzo poliziesco europeo. Scritto durante la pandemia e con l’eco delle piazze dei Gilet Gialli, il libro arriva dopo L’ombra del fuoco (e/o, 2021) un polar ambientato nei giorni della Comune di Parigi.
Ancor prima che i loro destini si incrocino, Jourdan, Louise e Christian sembrano accumunati da una solitudine profonda, quasi fatale. Quanto pesa questa consapevolezza nelle loro scelte di vita e nello stesso meccanismo narrativo della storia?
Volevo evidenziare questa solitudine profonda degli individui, l’assenza di punti di riferimento collettivi, l’atomizzazione che domina le nostre società. In questo contesto, i protagonisti esprimono la violenza di cui sono responsabili o vittime: mostrano a partire da sé quella sorta di macerazione degli individui nel succo tossico che secerne la società capitalistica e mercantile. Ma non credo che prendano davvero coscienza della propria solitudine, almeno non nel senso di trarne conclusioni che consentano loro di combatterla o di dargli un senso. Considerano si tratti di uno stato di cose derivante dal deterioramento della loro situazione personale, e di fronte a tutto ciò si sentono impotenti. La solitudine dell’assassino, invece, è frutto del suo stesso stato mentale patologico.
La violenza che cova palpitante nelle pagine del romanzo non sembra avere nulla di «eccezionale», si mescola al quotidiano, alla vita ordinaria dei protagonisti. Forse proprio per questo risulta ancora più terribile, intollerabile?
Nella storia si muovono delle figure costantemente sotto pressione, ma che continuano nonostante tutto a fare ciò che devono: aiutare gli anziani, consegnare materiali da costruzione, svolgere indagini, venire a patti con la morte. E arriva un momento di rottura in cui la reazione violenta, il passaggio all’atto criminale è inevitabile. Sul piano letterario, romanzesco, scrivere della tensione, del disagio, della solitudine è molto più interessante perché poi consente di tuffarsi in profondità, nei baratri con cui nella vita reale non si ha l’opportunità di confrontarsi. E la sfida è trovare le parole, i ritmi, la poetica per avvicinarsi il più possibile alla vertigine che si sta cercando di esprimere.
Nel personaggio di Jourdan, il poliziotto, sembra prendere corpo quella sorta di «blues dei flic» che spesso emerge dalle cronache francesi, ma che nasconde anche il contesto che rende possibili «le bavures»: gli eccessi nell’uso della forza, spesso dalle gravi conseguenze. Come ha costruito questa figura e in che misura le interessa il malessere degli agenti che ha spesso un volto contraddittorio?
La figura del poliziotto depresso è quasi un cliché del noir. Volevo indagarla un po’ e vedere cosa ne usciva. Cosa ero in grado di farne. Sapendo che nella realtà questi poliziotti stanchi e usurati esistono e sono una sorta di specchio deformante (e deformato) di ciò che la società è capace di produrre di peggio e che loro non sono più in grado di affrontare. Ma non sono loro che commettono «le bavures». La violenza poliziesca in Francia è commessa da poliziotti perfettamente a loro agio nel proprio ruolo, che si assumono la responsabilità dei propri atti, difesi incondizionatamente dai sindacati di polizia maggioritari, potenti, di estrema destra, che dettano la loro legge al ministro e che attaccano regolarmente la giustizia. Nella polizia francese è in atto una vera fascistizzazione (quasi il settanta per cento degli agenti vota Le Pen): sono razzisti, violenti e disprezzano lo stato di diritto. Però, per tornare a Jourdan, mi sono rifiutato di inserirlo in questa categoria. In una scena affronta un commissario di estrema destra, in un’altra disprezza i gruppi che vanno a reprimere i Gilet Gialli in strada. Volevo riportare Jourdan all’intimità della sua malinconia, del suo disgusto, della sua solitudine, dell’amore ormai impossibile che prova per sua moglie. È così che ho cercato di liberarmi dal cliché di cui ho parlato.
Louise è vittima della violenza del suo ex compagno, mentre Christian sfoga la propria rabbia repressa uccidendo giovani donne: sembra di scorgere un parallelo che non pare casuale tra la cosiddetta violenza domestica e gli omicidi di quello che si potrebbe definire come un serial killer. Su cosa voleva che concentrassero la propria attenzione i lettori?
Inizialmente volevo raccontare la storia di questo assassino, vagamente ispirata ad un caso vero, di una persona condannata nel Sud della Francia dieci anni fa. Ciò che avevo osservato di lui in televisione, a prima vista l’immagine di un poveraccio rannicchiato nella gabbia tra due gendarmi, mi aveva fatto venire voglia di esplorare cosa ci fosse dietro a questo tipo di uomo pericoloso. Quanto al personaggio di Louise, si è imposta mentre scrivevo perché è attraverso di lei che appare davvero in primo piano la violenza sociale, ma anche gli abusi di cui è vittima, ma anche i motivi per cui ogni mattina si alza e si rialza e riacquista gradualmente la sua dignità. Il legame con suo figlio Sam è indistruttibile, è il potente motore che la spinge in avanti contro ogni previsione. Così lei è diventata il vero perno del romanzo. Non c’è quindi alcun parallelo, nessuna simmetria, nemmeno invertita tra le figure di Louise e Christian. La violenza di cui una è vittima e l’altro colpevole non è della stessa natura: l’assassino uccide le donne ma non commette femminicidio nel senso che oggi diamo a questa parola.
Raccontando la sua città dalle pagine di «Le Monde» lei ha spiegato che «una città è un gregge di tetti e anime e voci umane aggrovigliate in un mormorio». In questo romanzo si ha però l’impressione che abbia trasformato quel mormorio in una voce, anche se caratterizzata da un tono basso e cupo. I colori crepuscolari di Bordeaux definiscono fin dalla prima pagina il tono e il respiro della storia.
Ho dato alla città i colori che avevo in mente quando ho scritto il romanzo, tra la fine del 2019 e il settembre del 2020. La pandemia, lo shock che ha provocato con queste tragedie (ciò che è accaduto in Italia poche settimane prima che in Francia è stato terrificante, le sofferenze degli italiani ci hanno sconvolto prima che diventassero le nostre), poi con il confinamento e l’emergere di un mondo che non avevamo mai visto, che pensavamo di non vedere mai, e questo isolamento, questa solitudine… diciamo che il mio morale si è oscurato. Tanto che ha avuto un effetto immediato sul tono del romanzo, che era già molto cupa. Da qui una città, scenario funebre, in procinto di essere dissolta dalla pioggia…
In «Attraversare la notte» il contesto sociale resta sullo sfondo rispetto ad altri suoi romanzi e questo malgrado si tratti della stagione che ha visto le mobilitazioni dei gilets jaunes. C’è comunque un filo che lega l’inquietudine dei protagonisti a quella più ampia, collettiva, che si respira nelle piazze?
Nei miei romanzi ambientati nella contemporaneità il contesto sociale non è in primo piano, rappresenta piuttosto lo scenario in cui le cose accadono. Ci sono invece la solitudine, la miseria (sociale, affettiva), la violenza sociale o criminale. Questa è la società in cui viviamo. In questo caso faccio riferimento ai Gilet Gialli, mi sembrava inevitabile visto che questa rivolta e la violenza con cui è stata repressa hanno scosso la società francese senza, ahimè, produrre il minimo risultato sociale o politico (in Francia la sinistra è in panne e le ultime elezioni non hanno risolto nulla, in un momento in cui i fascisti sono vicini al potere…). Comunque, non sto cercando di scrivere un romanzo sociale. I miei personaggi sono immersi, fino al collo, al soffocamento, nell’attuale società capitalista il cui dominio si accentua e si aggrava giorno dopo giorno. Ci vorrà qualcosa di diverso dai romanzi, siano essi capolavori alla Hugo o alla Zola perché i cittadini prendano coscienza della sorte che spetta loro e alla quale sono costretti ad acconsentire.
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