Nel passaggio da una temperie culturale a un’altra, le opere di uno scrittore corrono facilmente il rischio di fraintendimenti, più o meno gravi: il caso di Ernest Hemingway è tra i più clamorosi. Quando in Italia arrivarono finalmente in traduzione Fiesta, Addio alle armi, Per chi suona la campana e i Quarantanove racconti (vietati da Mussolini fino al 1943) molti – Elio Vittorini in testa – presero Hemingway per una sorta di Buon Selvaggio, che scriveva delle sue esperienze personali in uno stile semplice e schietto. Di qui a farne l’antidoto alla retorica dannunziana o peggio mussoliniana, il passo era breve; ma fu un passo falso, perché pochi scrittori erano più avvertiti di Papa (come lo chiamavano parenti e amici), e quelle sue frasi apparentemente lineari e cristalline, quel periodare fatto di paratassi, quei dialoghi che suonano così spontanei, erano in realtà il lavoro di un massiccio labor limae.

Come oggi sappiamo, Hemingway – istruito da Gertrude Stein – aveva attentamente studiato gli autori del modernismo; era stato adottato da Ezra Pound nei suoi primi anni a Parigi; andava a bere con James Joyce (probabilmente uno dei pochi che poteva tenergli testa su quel versante); aveva insomma frequentato i protagonisti di una straordinaria stagione di innovazione letteraria, aveva imparato l’arte e l’aveva messa da parte. Mentre l’autore dell’Ulisse non smise di aggiungere parole e frasi fino all’ultimo minuto prima di andare in stampa, facendo impazzire i tipografi francesi, Hemingway sottraeva, tagliava, cancellava, in ossequio alla sua teoria dell’iceberg. Solo l’essenziale doveva sopravvivere, lasciando al lettore il compito di ricostruire quel che era stato cassato, partendo da accenni, da dettagli, talvolta da silenzi.

Prova ne sono le  Lettere fra Ernest e Patrick (Mondadori, traduzione e cura di Paolo Simonetti, pp. 312, € 20,00) dove troviamo missive perlopiù inedite dello scrittore, alternate a quelle del figlio (l’unico ancora in vita dei tre che ebbe con Hadley Richardson e Pauline Pfeiffer). Qui, la prosa cristallina della narrativa hemingwayana, fatta di scomposizioni di marca cubista, cede a una lingua famigliare, colloquiale, intima, con abbreviazioni, aggiunte a penna, errori d’ortografia – una scrittura che Simonetti ha reso con attenzione e accuratezza, ben lontana da quella del curatissimo primo capitolo di Addio alle armi (quasi un poemetto in prosa).

Nelle lettere parla l’Hemingway più spontaneo, il padre di una famiglia che contava quattro matrimoni, i cui tre figli vivevano tutti altrove. Scriversi era dunque l’unica possibilità di comunicazione nell’arco di tempo coperto dal volume, fra il 1932 e il 1961. Papa era un genitore distante: quasi sempre nel suo buen retiro cubano, talvolta in missione sulla sua barca a caccia di sommergibili tedeschi nei primi anni della guerra, poi in Europa come reporter, al seguito degli eserciti statunitensi. Di tanto in tanto tornava alla sua vecchia passione, la corrida, e si concedeva una vacanza in Spagna per ammirare i grandi matador; arrivavano, poi,  le ricorrenti crisi di mal d’Africa, che spingevano Hemingway a cimentarsi in safari ancora abbastanza avventurosi, in quegli anni lontani dai telefoni satellitari.

Soprattutto la caccia univa Ernest al figlio Patrick, che sarebbe diventato un white hunter, ovvero una guida per ricchi europei intenzionati a divertirsi nell’abbattere elefanti, leopardi e rinoceronti, per poi passare (come farà il fratello Jack nell’Idaho) alla conservazione della fauna selvatica. La comune passione venatoria, quasi una ossessione, fortifica il legame tra padre e figlio invadendo questo epistolario, al quale porta alcune scene di una «crudezza» circa la quale i curatori dell’edizione originale hanno sentito il dovere di allertare i lettori.

A parte qualche momento di contrasto –  attestato per esempio da una lettera di Ernest che, con piglio dittatoriale, ordina ai figli di scrivergli due volte al mese raccontando dettagliatamente quel che stanno facendo – il rapporto con Patrick fu tutto sommato positivo; ma non altrettanto lo fu quello con gli altri due: il fratello maggiore Jack, amatissimo, ma distante, si arruolò nell’esercito degli Stati Uniti, e se ne andò in Europa nel bel mezzo della guerra fredda, non mostrando un grande desiderio di mandare sue notizie. Quanto a Gregory, il figlio che più patì il rapporto con l’illustre genitore, la relazione tra i due fu decisamente travagliata. Nelle sue lettere, Ernest se ne lamenta, e racconta a Patrick i ripetuti alterchi e le recriminazioni che avvelenavano il rapporto con il fratello.

Ernest e Gregory non erano fatti per intendersi: uno recitava il ruolo del macho, l’altro indossava di nascosto gli indumenti della madre e alla fin fine decise di cambiare sesso e diventò Gloria Hemingway.

Molte di queste schegge di vita famigliare aiutano a penetrare meglio le opere dello scrittore: la passione venatoria, per esempio, va interpretata come una sorta di eredità famigliare che dal padre dello scrittore, Clarence, passò al figlio e poi al nipote; l’amore per i grandi spazi aperti dell’America e poi dell’Africa, per la terra, il mare e i loro abitanti (un amore che uccide ciò che ama, come cantava Oscar Wilde) venne trasmessa da Ernest non solo ai suoi figli (anche Gregory/Gloria tentò di diventare un cacciatore professionista in Africa, ma a differenza di Patrick fallì), ma anche alle sue compagne.

Sulla scorta di queste lettere, tutta la prima parte di Isole nella corrente, uno dei due romanzi postumi, andrebbe riletta come un ritratto di famiglia, trasfigurato nella vicenda dell’artista Thomas Hudson – probabile avatar di Ernest –  che viene poco felicemente raggiunto sull’isola di Bimini, dov’è in vacanza, dai figli: due di loro moriranno, fornendoci una implicita  rappresentazione simbolica dei rapporti difficili con Jack e Gregory. Inoltre, nella moglie del protagonista del Giardino dell’eden, Catherine Bourne, le cui vicende la portano a farsi sempre più virile, sembra trovare una personificazione il cambiamento di sesso che stava portando Gregory a diventare Gloria.

Tra le righe delle lettere si affacciano, inoltre, i segni del declino di Hemingway: la sua preoccupazione per il caos che regna a Cuba, tra delinquenza e guerra civile; l’affannarsi attorno a manoscritti che sarebbero stati pubblicati – come ora sappiamo – solo dopo il suicidio dello scrittore;  la sua tacita paura di non riuscire a replicare gli spettacolari successi di un tempo (alleviata solo in parte dall’uscita del Vecchio e il mare e dalla realizzazione della sua versione cinematografica); le ombre della guerra fredda che si allungano sul mondo, mentre il conflitto di Suez manda a monte i progetti di un ennesimo viaggio in Africa, con annesso safari. L’ultima delle lettere comprese in questa raccolta è datata 22 marzo 1961: Ernest scrive dall’Idaho, e chiude così: «Le cose non vanno bene qui né alla Finca e io non mi sento bene». Tre mesi dopo, l’ultimo colpo di fucile del grande cacciatore bianco.