Nel 1975, siglando il contratto per le opere complete, Heidegger aveva disposto che i suoi 34 Quaderni di lavoro redatti lungo più di quattro decenni fossero pubblicati solo in coda all’edizione, prevista in 102 volumi e in circa 50 anni. Così non è stato. L’editore Klostermann di Francoforte ne ha avviato nel 2014 la pubblicazione anticipata con i volumi 94 e 96, proprio quelli che hanno fatto deflagrare il «caso Heidegger» e aggiunto un fosco significato storico-politico al colore nero delle loro copertine.

Heidegger non era nuovo ai posticipi.  Di un intero blocco di scritti degli anni Trenta e Quaranta aveva previsto la sola pubblicazione postuma, tenendo deliberatamente fuori portata gli esiti più significativi della riflessione successiva a Essere e tempo (dopo la cosiddetta «svolta») e in particolare gli audaci Contributi alla filosofia.

Lo stesso ordine di uscita delle Opere  prima gli scritti editi in vita, poi i corsi universitari, quindi gli inediti e infine carteggi e quaderni – mentre suggerisce un ideale timing di lettura, non fa che rimarcare l’ostinato giudizio di Heidegger sull’immaturità del suo tempo, impreparato a ricevere il suo pensiero: tenere in serbo, quindi, procrastinare.

Anche i Quaderni neri paiono stesi con mano «clandestina», come un doppio fondo fuori visuale. Né diari, né brogliacci – portano titoli, rinvii, numerazione dei capoversi, indici tematici compilati dall’autore – si presentano come la sede riservata, che ha potuto anche apparire esoterica, dove Heidegger alloggia non già i pensieri pensati, ma i loro germogli: «Le annotazioni dei Quaderni neri sono, nel loro nocciolo, dei tentativi di un semplice nominare – non sono enunciati, tanto meno appunti per un sistema già pianificato».

Le prime sezioni pubblicate – tre volumi di Riflessioni (1931-41) e due di Note (1942-51) – mostrano infatti una singolare impostazione formale che raccoglie pensieri brevi, privi di montaggio argomentativo, e li  incalza con variazioni e ripetizioni, come nell’arte musicale della fuga e al pari dei Contributi, di cui sembrerebbero raccogliere la sfida: risalire alle origini immemoriali della coappartenenza tra Essere ed essere umano, a prima dell’avvento greco della metafisica, per aderivi con un parlare inaudito.

Da questa architettura si stagliano i Quattro Quaderni I e II che compaiono ora presso Bompiani come sesto volume dei Quaderni Neri, ancora una volta affidati all’eroica traduttrice Alessandra Iadicicco (a cura di Peter Trawney, pp. 208, € 20,00).

Caso unico e raro di triplo fondo, questi Quaderni corrono paralleli a scritti cruciali come Lettera sull’Umanismo, Conferenze di Brema, Introduzione a Che cos’è la Metafisica?, Sentieri interrotti – con cui Heidegger esce a un tempo dal silenzio voluto e da quello imposto con l’interdizione all’insegnamento (dal 1946 al 1949, causa la sua adesione al nazionalsocialismo nel 1933) – e sono anche coevi del secondo volume di Note.

Una fitta rete di rimandi e di rinvii li collega agli altri «fondi», con rimbalzi tematici e lessicali che consentono di operare raffronti esemplari e di individuare proprio nei QQ la fucina più sotterranea e rovente dei temi di vetrina: la tecnica come impianto destinale dell’Essere; il linguaggio come sua casa, il necessario superamento della metafisica e soprattutto il pensiero dell’Essere, scritto con l’antica grafia Seyn oppure barrato con una X a rimarcarne il mobile gioco di specchi e il carattere obliato di evento.

Così, mentre nella Lettera Heidegger «confessa» che la terza sezione di Essere e tempo «non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato la svolta», nelle Note svela che sono proprio i QQ «la tanto agognata parte II di Essere e Tempo», dove il pensiero esperisce finalmente l’evento conforme al destino dell’Essere.

E come si esperisce questo Essere barrato e svoltante, che si dà e si ritrae, si svela e nasconde, che avviene al tempo stesso come evento e come destino e ci riguarda in modo essenziale?

Nei QQ è evidente soprattutto il tentativo acrobatico di captare la «saga dell’Essere» – il suo dire non-detto – e di portarla a farsi linguaggio: lungo questa via impervia, il pensiero deve lasciarsi alle spalle la «comprensibilità comune» e «addentrarsi nell’oblio». Non ci sono istruzioni per l’uso: l’Essere si fa vicino in modo subitaneo «senza circostanze/senza impressioni, erudizione o educazione/senza le parole elevate della metafisica/senza ciò che è odierno/ senza ciò che è metodico/senza metafisica/senza la tecnica». Al pensiero viene richiesto un balzo nella semplicità, in ciò che «va pensato puramente in base a se stesso senza giri di parole», fuori dalla presa della metafisica che riduce il linguaggio a elemento del calcolo. Il linguaggio autentico – quello dell’evento – «parla da un’altra essenza del linguaggio», si dispiega nel silenzio, «nell’impronunciato».

Più che in ogni altro testo, nei QQ Heidegger batte sull’incudine ogni singola parola, la rivolta e la ripete, ne saggia risonanze e dilatazioni, in un crescendo di invenzioni e variazioni con cui tenta di portare il silenzio a linguaggio.

Riesce a farsi intendere? Sono questi echi dal sottosuolo il guadagno speculativo dei QQ? Heidegger non manca di dirci che il mestiere di pensare – «il più inappariscente e forse il più nobile» – è imparentato con l’agire, non con il fare e che le sue «officine» sono «corti solitarie».