Hans Magnus Enzensberger, scomparso all’età di 93 anni, è stato la voce più originale e più autonoma da mode, correnti culturali, affiliazioni politiche, scuole e tradizioni nella Germania del dopoguerra. Eppure in un rapporto costante, discreto ma non timido, con la società tedesca, le sue contraddizioni e i suoi conflitti. Ironico, scanzonato ma ben consapevole di ciò che è grave e minaccioso. Di questa ritrosia militante e per nulla incline a compromessi, Hans Magnus Enzensberger ha quasi fatto un metodo, una pedagogia culturale, a volte fastidiosa, ma sempre incisiva.

Sebbene la politica attraversi tutta la sua opera e il suo impegno di organizzatore culturale, dalle sue manifestazioni e dai suoi modi di azione Enzensberger si è sempre tenuto alla larga, così come dai luoghi e dalle forme dello scontro sociale. Restandone un ispiratore benevolo e scettico al tempo stesso. Kursbuch, la rivista che aveva fondato nel 1965 insieme a Karl Markus Michel, che per molti anni la avrebbe diretta, fu in un certo senso, con i suoi corposi numeri monografici, un vero e proprio organo culturale del movimento extraparlamentare tedesco negli anni Sessanta e Settanta.

TUTTAVIA L’APPOGGIO di Enzensberger alla radicalità con la quale gli studenti tedeschi denunciavano la contiguità del conformismo autoritario borghese del dopoguerra con il lascito del nazismo si manteneva convinto ma prudente e soprattutto attento a quelle che la sua sensibilità individuava come insidie che la stessa rivolta etica portava in seno. Vi è un episodio, riportato in Tumulto (2014), che testimonia chiaramente di questo atteggiamento. Nel 1966, la grande coalizione tra Cdu ed Spd aveva varato i cosiddetti Notstandsgesetze, un insieme di norme che consentivano la sospensione di diritti politici e sindacali in caso di una conflittualità sociale interpretabile come stato di emergenza. A contrastare le leggi speciali rimanevano solo l’opposizione extraparlamentare degli studenti e il sindacato metalmeccanico Ig Metall.

A una grande manifestazione contro i Notstandsgesetze a Francoforte, intervenne dal palco il già noto Enzensberger. Racconta però che quando percepì come le sue parole trascinassero con sé la folla dei manifestanti, si materializzò nella sua mente lo spettro di Goebbels che nel celebre discorso dello Sportpalast (1943) incitava le masse alla «guerra totale». Si ripromise allora di non salire mai più su una tribuna. E avrebbe poi sempre mantenuto questa promessa.

IL PARAGONE era alquanto improprio ed esagerato, ma rivendicava un rapporto con la politica che assegnava all’intellighenzia critica un ruolo di sorveglianza, prima e soprattutto su sé stessa. Tuttavia Enzensberger ha sempre coerentemente mantenuto una posizione radicalmente critica nei confronti degli assetti di potere e dei dispositivi di sfruttamento, contro ogni conformismo o soddisfatto adattamento allo stato di cose esistente. Neanche l’ombra di conversioni e ripensamenti. Il dialogo del maturo intellettuale Enzensberger con il giovane marxista degli anni Sessanta che era stato, è tutto sommato bonario, testimone di una visibile linea di continuità.

RESTA PERÒ FORTE quell’avvertimento dei caratteri distruttivi e autodistruttivi che possono annidarsi nelle file degli oppressi, degli sconfitti, dei diseredati. A questo tema, tornato potentemente alla ribalta con il terrorismo islamista, Enzensberger aveva dedicato un breve e incisivo saggio, Il perdente radicale, nel quale si esaminava la figura, minacciosa e tragica al tempo stesso, di quanti si sentivano richiamati al compito di vendicare una sconfitta storica, quella del modo islamico ad opera dell’Occidente, ma anche personale, come gli adolescenti massacratori nelle scuole americane. Lo sguardo di Enzensberger, pur così radicato nella cultura tedesca, si allarga però a uno spazio globale e alla dimensione planetaria delle contraddizioni che lo attraversano, sempre da un punto di osservazione imprevisto e laterale che non pretende di offrire spiegazioni esaurienti o di illuminare vie precostituite.

In uno dei suoi ultimi scritti, Le considerazioni del signor Z, (attenzione, l’edizione Einaudi reca un’enorme Z in copertina) questo «pensare in libertà», questa pedagogia che non vuole insegnare nulla, né si sforza di farsi comprendere più di tanto, che salta di palo in frasca e lascia le storie a metà come il Jacques le fataliste di Diderot, Enzensberger mette simpaticamente in scena il suo disimpegnato impegno, o viceversa. Non è una posizione al riparo da critiche, alla fine si può dire che sia un modo di prendersela comoda, un socratismo senza rischio di cicuta. Ma resta il fatto che dall’intera opera di questo irrequieto intellettuale, quella poetica come quella narrativa e saggistica, il pensiero critico e l’intelligenza politica hanno potuto e possono continuare a trarre ispirazione, idee e raffinati strumenti.