Ci sono momenti che, a guardarli, si sa che già che resteranno nella memoria, attimi iconici che svelano la natura del tempo che vivono. Lo è stata ieri la conferenza stampa in mezzo al deserto di Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni unite: camicia grigio chiaro, capelli scompigliati dal vento del Sinai, davanti una manciata di microfoni e dietro l’arco che separa l’Egitto da Gaza.

LO È STATA perché ha dato il senso, plastico e terribile, dell’impotenza. Lui, che le Nazioni unite le presiede, è volato fino ad Al Arish, e poi a est verso il valico di Rafah per certificare la morte cerebrale dell’Onu: «Non abbiamo il potere di fermare la guerra. Chiediamo di farlo a chi quel potere ce l’ha». Ad accompagnarlo c’era il governatore egiziano della Penisola del Sinai, Mohammed Shusha, e una processione di camion di aiuti senza fine apparente. Erano 1.500 quelli in attesa fino a un paio di settimane fa, ora secondo Shusha sarebbero 7mila. Giovedì ne sono entrati 35, venerdì nessuno, ieri neanche.

È quel numero, e quell’inutile attesa a poche centinaia di metri da Gaza, che ha fatto parlare Guterres: «Qui vediamo lo strazio e la crudeltà di tutto ciò. Una lunga fila di camion umanitari bloccati su un lato del cancello, l’ombra lunga della carestia sull’altro». È un «oltraggio morale», dice il segretario generale: «I palestinesi di Gaza, bambini, donne e uomini, vivono dentro un incubo infinito. Porto la voce della grande maggioranza del mondo che ne ha avuto abbastanza».

Parole durissime rivolte a chi quei camion li rallenta o li rimanda indietro («Niente giustifica la punizione collettiva del popolo palestinese», dice Guterres): Israele, a cui il più simbolico dei vertici del Palazzo di Vetro chiede un «impegno inviolabile» ad aprire immediatamente i valichi terrestri e a far tacere le armi. A stretto giro è giunta la risposta israeliana, per bocca del ministro degli esteri Katz che ha definito l’Onu «organizzazione antisemita, anti-israeliana e sostenitrice del terrorismo».
Non va meglio ai camion che sono riusciti ad attraversare il valico israeliano di Kerem Shalom, a est della Striscia. L’ultima denuncia è di Philippe Lazzarini, capo dell’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che ieri ha scritto che a un convoglio di cibo dell’Unrwa è impedito di raggiungere il nord di Gaza, dove è ormai accertata l’emersione di una gravissima carestia. È la seconda volta in una settimana, dice Lazzarini.

LA GUERRA “umanitaria” assume forme diverse, camion in attesa da settimane nel deserto egiziano, camion senza autorizzazione a passare oltre Wadi Gaza. E cibo preso di mira dal fuoco. È successo di nuovo ieri, ancora una volta alla rotonda Kuwait di Gaza City, missili sulla folla di affamati assiepata per ricevere un po’ di cibo. Almeno nove gli uccisi, in quello che è diventato un punto di riferimento primario per la distribuzione di aiuti. Era andata peggio il 29 febbraio scorso, quando nello stesso luogo di palestinesi ne erano stati ammazzati 80.
Si muore anche dentro lo Shifa, il più grande degli ospedali di Gaza. Ieri, al sesto giorno di assedio israeliano, secondo il ministero della sanità hanno perso la vita cinque feriti per l’impossibilità di ricevere cure adeguate. Non c’è cibo, non c’è acqua e i bulldozer israeliani proseguono nella distruzione del compound. Tel Aviv ieri ha aggiornato il numero di uccisi e arrestati dentro lo Shifa, tutti miliziani di Hamas secondo l’esercito israeliano: oltre 170 i morti, 800 i sospetti detenuti. I palestinesi insistono: sono civili.

«L’INTERA AREA è stata trasformata in un campo di battaglia – riportava ieri il corrispondere di Al Jazeera, Hani Mahmoud – Intorno allo Shifa l’esercito israeliano sta sistematicamente appiccando incendi agli edifici. E continua a operare con violenza all’interno, danneggiando equipaggiamento medico». Immagini catturate da video girati nei pressi dello Shifa mostrano le fiamme avvolgere le case, svuotate – dice la stampa presente – dai loro abitanti, cacciati o arrestati.

PIÙ A SUD, al confine con l’Egitto, a poca distanza dallo scranno da cui ieri Guterres ha lanciato il suo appello, cadono le bombe. Nelle ultime 24 ore Rafah è stata colpita più volte da droni armati. Nei quartieri est della città un missile ha sfondato una palazzina in cui una famiglia di sfollati aveva creduto di trovare rifugio. Cinque uccisi, tutti bambini, sette i feriti portati all’ospedale al-Najjar. Numeri che aggiornano il bilancio delle vittime dal 7 ottobre, oltre 32.120, a cui si aggiungono quasi 74.500 feriti.

Sul cessate il fuoco si esprimerà lunedì il Consiglio di Sicurezza Onu dopo la bocciatura, venerdì, della risoluzione statunitense. A bloccarla il veto di Cina e Russia (oltre al voto contrario dell’Algeria), che ieri hanno ricevuto il plauso di Hamas.

INTANTO con il segretario di stato Usa Antony Blinken ripartito da Israele con nelle orecchie il messaggio chiarissimo del premier Netanyahu (offensiva terrestre su Rafah con o senza il sostegno statunitense), le pressioni maggiori almeno all’apparenza sembrano giungere dal fronte interno: ieri nelle principali città israeliane nuove proteste contro il governo e per elezioni anticipate (due manifestanti arrestati a Cesarea), mentre centinaia di palestinesi cittadini israeliani hanno partecipato al corteo per il cessate il fuoco nella cittadina di Majd al-Krum.