Trentaquattro anni di prigione, la più alta pena carceraria mai comminata in Arabia saudita a un’attivista per i diritti umani. È la condanna letta il 9 agosto scorso dal Tribunale penale speciale a Salma al-Shebab, dottoranda dell’Università di Leeds, attivista per i diritti delle donne e sciita (minoranza storicamente oppressa nel regno).

In primo grado ne erano stati comminati sei, sestuplicati in appello. Si aggiungono, a seguire, 34 anni di divieto di espatrio. Il suo reato: aver pubblicato tweet in cui rivendicava diritti e libertà. «Le accuse mosse dalla procura – scrive l’ong saudita Alqst – includono (…) l’aver minato la sicurezza e la stabilità dello Stato e l’aver pubblicato rumor tendenziosi su Twitter». Era stata arrestata il 15 gennaio 2021, durante una breve vacanza a casa. Erano poi seguiti 285 giorni sotto interrogatorio (e abusi).

Il caso di al-Shebab non è unico: come ricorda l’ong Freedom Initiative, nel 2021 il suo fu uno delle centinaia di arresti di giovani nella Provincia orientale (sciita) del regno, quasi tutti giustificati con l’uso dei social media come megafono delle loro rivendicazioni.

Non solo: secondo Bethany Alhaidari, direttrice di Freedom Initiative per l’Arabia saudita, in queste settimane sarebbero stati diversi i casi di condanne drasticamente incrementate in appello. Il timore è l’emersione nelle aule dei tribunali di una nuova tendenza, pene spropositate per reati-farsa. Il 2021 non è stato il solo anno di repressione di massa nei confronti di attiviste per i diritti delle donne: nel 2018 e nel 2019 era successo lo stesso.

Tra i casi più noti quello Loujain al Hathloul, rilasciata nel febbraio 2021 dopo oltre mille giorni di carcere duro. Insomma, non si può parlare di eccezioni ma di una sistematica operazione di occultamento delle donne che opera su più fronti: status di cittadine di serie B (meno diritti e controllo maschile della loro vita) e punizione per chi disobbedisce. Nessuna riforma ha scardinato tale realtà, tanto meno quelle del principe ereditario e reggente di fatto Mohammed bin Salman. Quello a cui Joe Biden ha tributato una nuova legittimità con una visita nel regno, lo scorso luglio.