Nel Mediterraneo orientale è in corso un nuovo conflitto per la «Patria Blu» che fa ancora più a pezzi l’atlante del disordine Nato, ne è la prova il confronto diretto tra una fregata turca e una greca a est di Rodi. L’espansione di Erdogan nel Mediterraneo, dall’Egeo alla Sirte, ma anche oltre Suez – in Mar Rosso (Somalia) nel Golfo (Qatar) – ha un nome: Mavi Vatan, la Patria Blu, così viene chiamata dagli strateghi dell’ammiragliato turco.

Nel concreto significa che le navi da guerra turche stanno accompagnando quelle per l’esplorazione delle risorse energetiche offshore nell’Egeo, da Cipro fino a Castellorizo, mentre sull’altro fronte si muovono la marina greca, quella francese e si alzano in volo i droni di Israele, con l’Egitto in allerta per difendere gli accordi recenti con Atene. Intese che come quella stipulata il 6 agosto tra Atene e il Cairo per una zona economica esclusiva tra i due Paesi sono il controaltare a quelle stipulate da Erdogan con la Tripolitania di Sarraj, occupata dalle truppe e dai jihadisti di Ankara in guerra contro il generale Haftar, l’Egitto, gli Emirati, la Russia e la Francia.

Il memorandum commerciale firmato giovedì scorso tra la Turchia e Tripoli, accanto alle basi militari libiche ottenute dai turchi, ormai lega Serraj mani e piedi al suo protettore. All’Italia restano gli interessi dell’Eni, il gasdotto Greenstream con la Sicilia e il bruciante capitolo dei profughi che gestiamo in condominio con la Turchia, il guardiano pagato dall’Ue di tre milioni di rifugiati siriani, che all’inizio dell’anno ha tentato di destabilizzare la Grecia inondandola di profughi e schierando le forze speciali ai confini. A noi il compito umanitario di salvare la gente in mare e quello di smontare i lager dei rifugiati in Libia, a Erdogan di aprire o chiudere le valvole della «Quarta Sponda», in circostanze per niente chiarite dall’ultima telefona tra Conte e il presidente turco.

I confini marittimi del Mediterraneo, dove aleggia insistente l’eco dell’esplosione del Libano, sono ribollenti. Coinvolti ci sono Paesi della Nato con la Francia e la Turchia, su fronti contrapposti in Libia, l’Italia stessa – con gli interessi dell’Eni in Libia, in Egitto e nell’Egeo – la Grecia, sempre ai ferri corti con Ankara, questa volta appoggiata anche da Israele oltre che dall’Ue, con gli Usa in posizione quanto meno ambigua: tra la Turchia e la Grecia a Washington non hanno ancora deciso con chi stare, come del resto in Libia. Più chiara la posizione di Washington in Siria, Iraq e Libano. Nel Nord della Siria gli Usa hanno lasciato che il Sultano «atlantico» massacrasse i curdi e si insediasse in Iraq per tenere a bada il Pkk, in Libano gli americani con Israele hanno deciso di mettere i bastoni tra le ruote alla missione Unifil se non viene disarmato o neutralizzato Hezbollah, la vera posta in gioco della crisi libanese.

Nel cortile di casa gli Usa lasciano a Erdogan mano libera ma forse lo stesso «reiss» non ha ancora del tutto deciso, tenendo il piede in due scarpe, se gli conviene stare più dalla parte americana o da quella della Russia di Putin con il quale ritiene più facile arrivare a un accordo dopo avere acquistato – unico Paese Nato – gli armamenti anti-missile di Mosca.

Quali sono gli interessi in gioco della Patria Blu? L’idea di fondo elaborata dall’ammiragliato turco è quella di rimettere in discussione le zone di sovranità marittima nel Mediterraneo, obiettivo cui corrispondono perfettamente gli accordi stipulati con Tripoli. Si tratta, nell’ottica di Ankara, di ridisegnare le aree di giurisdizione marittima turca sotto la sovranità nazionale di quella Turchia nata cento anni fa, nel 1920, prima con il Trattato di Sanremo e poi con quello di Sévres. Mente i «biscazzieri della pace», come definì D’Annunzio le potenze coloniali britannica e francese, si spartivano con i protettorati i pezzi dell’impero ottomano, venivano create le premesse di un secolo di prevaricazioni e conflitti. E dei successivi tentativi di rivincita che per i turchi hanno assunto quelli della «sindrome di Sévres».

La Turchia intende smontare le «zone economiche esclusive» della Grecia e di Cipro ellenica, quelle dove esplorano il gas le trivelle offshore di compagnie come Total, Eni, Exxon. Contesta le mappe europee e il diritto delle isole a contatto con la Turchia di avere zone economiche esclusive e allo stesso tempo insiste che la sua piattaforma continentale arriva fino all’Egitto e alla Libia. È tutta una grande Patria Blu alla turca. Quindi i turchi accompagnano le loro operazioni con la marina da guerra: è la diplomazia delle cannoniere.

Ma dal punto di vista economico la posta è così alta? Certo per Egitto, Israele, Cipro e Libano le risorse sono ingenti e significative per le ricadute economiche e ambientali. Ma il famoso gasdotto EastMed, che doveva portare le risorse di gas dell’Egitto e del Levante fino all’Europa, sembra ormai saltato, almeno secondo l’Eni: troppo costoso e complicato politicamente. L’escalation di Erdogan nell’Egeo sta in pratica dimezzando il potenziale di questo bacino offshore. Se la ride la Russia che fornisce il 50% del gas alla Turchia, perché vanno in fumo progetti concorrenziali per Mosca come il gasdotto EastMed e intanto la Nato è sempre più a pezzi mentre gli Usa probabilmente sono meno disposti a battersi per i diritti della Grecia o di Cipro e maggiormente inclini a lisciare il pelo a Erdogan, padrone di una parte della Libia e attore ineludibile in Siria per tenere sotto pressione Putin. E così nella nuova Patria Blu della Turchia sprofondano i progetti di cooperazione e affiorano vecchi e nuovi conflitti.