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«Guardateci»: la voce delle palestinesi su guerra e violenze

«Guardateci»: la voce delle palestinesi su guerra e violenze

Palestina A Lucha y siesta il racconto di Shurooq Al-Afandi e Fidaa Sabah sulla vita quotidiana nella Striscia e nei territori occupati

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 14 settembre 2024

«Siamo sotto uno stato di completa occupazione e la vita giornaliera è difficile soprattutto per le donne: abbiamo un accesso limitato a tutte le risorse» afferma Shurooq Al-Afandi, attivista palestinese per i diritti delle donne con disabilità in collegamento dai territori occupati. A lei gli occhi e le orecchie di un cerchio numerosissimo, riunito nel cortile della Casa delle donne Lucha y siesta, a Roma, la sera dell’11 settembre. Nella genealogia di questo spazio transfemminista che esiste in città da 16 anni è stata fondamentale la relazione con le compagne curde, zapatiste e di tutto il mondo, nella convinzione che le donne che si auto-organizzano siano l’unica forma di resistenza possibile. Parte del cerchio è anche Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati. Shurooq Al-Afandi racconta che dal 7 ottobre a oggi il numero dei checkpoint israeliani in Cisgiordania è aumentato dal 20 al 30 percento. «Come donne, ai checkpoint siamo esposte a maggiori pericoli, subiamo aggressioni e molestie sessuali» continua l’attivista palestinese. «Le donne e le ragazze con disabilità vengono umiliate dai soldati israeliani, perché costrette a scendere dalle automobili e a sottoporsi ai loro controlli». 

Al-Afandi descrive con voce affaticata gli enormi attacchi compiuti nell’ultimo mese da Israele nella parte nord della Cisgiordania: «1500 famiglie sono senza casa e si sono trasferite da parenti già in difficoltà, in una situazione abitativa molto critica». Anche Fidaa Sabah, operatrice umanitaria palestinese che vive nella Striscia di Gaza è stata costretta ad abbandonare la casa che aveva costruito dopo 15 anni di risparmi. Il segnale va e viene nella Striscia e Sabah offre la sua testimonianza tramite dei messaggi audio. La sua voce risuona nel cortile silenzioso della Casa delle donne. Dopo aver perso la casa, Sabah ha trovato rifugio con la famiglia in un campo profughi e lì suo marito è rimasto ferito a una gamba a causa di un bombardamento. È in quel momento che Sabah ha assunto il ruolo di cura di tutta la sua famiglia. Si è spostata poi a Rafah, dopo in un campo gestito da un’organizzazione umanitaria. «Abbiamo improvvisato il materiale per cucinare, per costruire le tende, abbiamo improvvisato tutto. Ho cercato di mantenere lo spirito per i miei bambini, mentre dentro ero rotta», commenta. Un altro trasferimento forzato ha portato la famiglia di Sabah a rifugiarsi in una scuola ma il 14 maggio l’esercito israeliano ha bombardato anche quell’edificio: «Gli uomini sono rimasti chiusi nella loro stanza. La scuola è bruciata per oltre tre ore, con dentro i corpi delle persone e i loro sogni. Ho perso mio marito e mio fratello». 

Albanese ricorda i popoli colonizzati e ancora oggi privati del diritto all’autodeterminazione: curdi, sahrawi, kashmiri, tibetani. «E questi popoli non vanno dimenticati. Quello che va avanti da decenni in Palestina, però, avviene con la nostra copertura politica, il nostro supporto, la nostra giustificazione morale», prosegue. Al-Afandi è molto preoccupata per l’educazione dei bambini palestinesi: «È molto difficile per i bambini e gli insegnanti raggiungere le scuole in Cisgiordania. Il sistema educativo è al completo collasso». La criminologa Nadera Shalhoub-Kevorkian ha coniato il termine “unchilding” per descrivere la privazione dell’infanzia e del futuro a cui sono sottoposti i bambini palestinesi sotto l’occupazione. Per Albanese «la maturità di questi bambini è impressionante e non è una cosa bella. Non è normale che un bambino faccia l’elenco dei suoi diritti violati, o che dica di dover essere forte per i genitori perché la sorella è morta»

Al-Afandi è preoccupata anche per l’aumento della violenza sulle donne: «Non ci sono dati sulla violenza domestica in questo periodo in Palestina, ma è sicuramente aumentata perché per la paura rimaniamo più spesso in casa». In uno studio pubblicato a febbraio Fionnuala Ní Aoláin, ex relatrice speciale dell’Onu, sottolinea che l’attenzione sulle violenze sessuali non deve distogliere dalle altre forme di violenza di genere che le donne subiscono nel corso di una guerra. Al-Afandi sostiene che «dovrebbe esserci più pressione da parte delle Nazioni Unite e della comunità internazionale per risolvere le violazioni dei diritti umani delle donne e delle persone che vivono in Palestina». Anche per Albanese ci sono delle soluzioni possibili: embargo sulle armi, blocco degli accordi economici, interruzione degli accordi tra università occidentali e israeliane. 

«Le donne sono il supporto chiave che permette in questo momento il lavoro di cura in Palestina, sostengono le famiglie e le comunità», conclude Fidaa Sabah. «Non siamo “vittime” di questa guerra, ma agenti di trasformazione profonda.  Vogliamo vivere una vita dignitosa, in pace e qui vi imploro: guardatemi, guardateci, ascoltate il nostro dolore e la nostra sopravvivenza»

 

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