I contadini sembrano l’unica forza popolare unita al momento in Italia. Si muovono sui trattori simbolo della liberazione dalla fatica dell’aratro, ma anche del modello che li ha portati all’attuale protesta.

La compattezza e la visibilità di questa protesta sono la forza degli agricoltori: quel mondo produttivo che l’attuale modello alimentare ha separato dalla società, ha relegato in luoghi remoti, ha cancellato dall’esperienza comune, è determinato a manifestarsi.

Potrebbe essere una grande occasione per tutti: per la politica di dimostrare capacità di ascolto proattivo e soprattutto di visione, una visione che superi le scadenze elettorali e guardi al futuro delle generazioni a venire; per i cittadini che non si interessano di agricoltura, ma sono coinvolti dal fatto che si nutrono, di riavvicinarsi al settore primario dal quale dipende la nostra sopravvivenza.

Potrebbe essere una grande occasione per tutti noi di guardare in faccia i limiti di un modello produttivo che evidenzia tutte le sue fragilità proprio quando dovrebbe tutelarci: solo negli ultimi anni si sono susseguiti grida di allarme sulla sicurezza alimentare per via del Covid, della guerra in Ucraina, o della crisi climatica. Eppure sembra che il nemico sia il Green Deal europeo e su quello la politica è stata subito pronta a fare passi indietro.

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Ma il Green Deal, cioè quella cornice nella quale si sarebbe dovuta realizzare la necessaria transizione ecologica (conversione!), non si è mai compiuto. E la strategia europea sulla biodiversità e la Farm to fork da esso derivanti, avrebbero dovuto trovare concretezza nella Pac (politica agricola comune) che vale 386,6 miliardi di euro, ossia il 31% di tutto il bilancio europeo per il periodo 2021-2027 (negli anni Ottanta era il 66%) e il 72%, tra il 2023-2027, è destinato per sussidi diretti agli agricoltori. Ricordiamo che l’80% dei finanziamenti va al 20% degli imprenditori agricoli e premia l’agricoltura intensiva.

La protesta esprime lo scontento di tutti: i contadini virtuosi e gli allevatori responsabili che nei decenni passati hanno cercato di sopravvivere all’omologazione della produzione alimentare, che si sono ritrovati, sempre più soli, a competere in un mercato globale che ha come unico riferimento il prezzo, che ogni anno vedono sfumare il valore del loro lavoro e una prospettiva concreta di vita, consegnandoli alle banche o a un futuro lontano dalla terra.

Ma accanto a loro ci sono anche coloro che praticano un’agricoltura intensiva, che ricevono decine di migliaia di euro ogni anno, ma che si ritrovano comunque dipendenti dal fossile, dai sussidi pubblici e dalla meccanizzazione. Dipendenti e fragili: ogni speculazione si riflette subito sul prezzo che gli viene riconosciuto.

Il modello attuale è figlio della Rivoluzione verde degli anni 70, avrebbe dovuto eliminare la fame, fallendo: ancora oggi circa 800 milioni di persone non hanno regolare accesso al cibo. Un modello estrattivo ed eccedentario che negli anni Ottanta, per la prima volta, si trovò a dover risolvere il problema di un’eccessiva produzione di cibo e per mantenere il prezzo lo distruggeva: emblematica l’immagine dei bulldozer che schiacciavano le arance. Ed è il modello che negli anni Novanta ha consentito alla Goldman Sachs di inserire il cibo nel paniere delle commodities: sottomettendolo alle regole di mercato come se fosse equiparabile a ogni altra merce. E non la ragione della nostra sopravvivenza.

In questa prospettiva si capisce bene come il problema non sono quelle misure agro-ambientali definite follie green, ma le politiche del passato, quelle che ci hanno portato alla terribile attuale fragilità della produzione alimentare: una crisi nella quale le istanze socio/economiche e quelle ambientali sono intrecciate indissolubilmente. È miope l’idea di tutelare il profitto a discapito non solo della salute dei suoli, dell’acqua e dell’aria, ma anche della biodiversità che è la nostra reale garanzia di adattamento e sopravvivenza, la nostra possibilità di vivere su questo Pianeta.

Se la commissione europea farà passi indietro sul Green Deal sarà per mancanza di coraggio: il coraggio di anteporre il bene reale comune agli (enormi) interessi privati e alle logiche elettorali. E sarà un favore alle grandi corporations che controllano tutto: sementi, fertilizzanti, produzione di mezzi meccanici, fino alle compagnie navali che trasportano le materie prima attraverso gli oceani, le uniche in grado di reggere e governare il mercato.

Contadini e cittadini insieme possono ancora allearsi per esigere quello che davvero serve: una determinata e concreta svolta agroecologica sostenuta dalla politica, cioè dai soldi pubblici che avremmo il diritto di determinare come debbano essere spesi. Non sbagliamoci: l’agroecologia, l’agricoltura biologica, la tutela della biodiversità, non servono alla Natura ma al consesso umano. Non saremo noi a salvare la Natura ma lei a salvare noi, casomai.

* presidente Slow Food Italia