Sappiamo che Goethe leggeva appassionatamente, da ragazzo, i Volksbücher, i libri popolari, come quelli che narravano le avventure di Rinaldo e dei suoi fratelli (Les Quatre Fils Aymon) – lo ricorda nella sua autobiografia, Poesia e verità – o di Reinhart la volpe. Reinhart Fuchs, di cui parla in una lettera del 1765 alla sorella Cornelia, ricompare inaspettatamente molti anni dopo, e alla grande, quando Goethe si confronta con i drammatici avvenimenti della Rivoluzione francese. E li vive da vicino. Nel 1792 assiste in prima persona – il duca Carlo Augusto di Sassonia-Weimar, di cui è consigliere e amico, gli ha chiesto di accompagnarlo – alle operazioni di guerra che la Prussia e l’Austria, per «restituire i pieni poteri» a Luigi XVI, conducono contro la Francia. Nelle sue memorie – La campagna di Francia del 1792 – sotto la data 19 settembre, giorno in cui le armate rivoluzionarie condotte dal generale Dumouriez fermarono a Valmy le truppe condotte dal generale prussiano Brunswick, che stavano per invadere la Francia, ricorda di aver detto , davanti a una cerchia di ufficiali che chiedevano il suo parere: «Da qui e da oggi inizia una nuova epoca della storia universale, e voi potete dire di essere stati presenti».

Nei giorni della «Campagna di Francia» Goethe legge il Reynke de Vos, un poema basso-tedesco pubblicato a Lubecca nel 1498, nella traduzione in prosa che Johann Christoph Gottsched aveva pubblicato nel 1752. Le travagliate e avventurose vicende della Volpe, che guerreggia senza fine con gli accaniti antagonisti, Isegrin il lupo e Braun l’orso, in un mondo di violenze, di inganni, di soprusi, lo coinvolgono profondamente, e lo spingono a scrivere, a partire dal testo di Gottsched, un Reineke Fuchs in esametri (pubblicato nel 1794). Il poema – secondo quanto Goethe stesso dice è «una versione libera, che sta tra la traduzione e la rielaborazione» – si può ora leggere in Reineke la volpe in dodici canti, a cura di Micaela Latini e Ginevra Quadrio Curzio, con testo tedesco a fronte (La Vita Felice, pp. 504, € 20,00).

Non era facile rendere il realismo arcaizzante e il ritmo sinuoso e insieme incisivo degli esametri di Goethe, si può dire che questa accurata traduzione, in endecasillabi sciolti, si avvicina bene al sapore dell’originale.
Molte opere di Goethe testimoniano, come lui stesso ha scritto, «l’enorme sforzo di dominare letterariamente nelle sue cause e conseguenze questo avvenimento [la Rivoluzione francese], tra tutti il più spaventoso». La sua avversione di principio era dovuta al suo profondo attaccamento all’ordine e alla ripugnanza per l’eversione, per il «vulcanismo», che si contrappone alla crescita organica, al mito della pianta archetipica. Ma proprio per questo fu colpito dalla sensazione che nella Rivoluzione francese ci fosse qualcosa di fatale e di inevitabile. Reineke la volpe – così come le tre commedie satiriche composte negli anni 1791-’93, Il Gran Kofta, Il cittadino generale, Gli eccitati, così come La fiaba – deve essere letto come «una considerazione su quanto accade nel mondo».

Nel poema l’indole versatile, astuta, polimorfa del nostro personaggio riesce sempre ad avere la meglio sui suoi avversari. Piovono le accuse sulle sue malefatte: il lupo Isegrim lo accusa per l’adulterio con Gieremund, la sua sposa, il gallo Henning per aver ucciso e divorato Kratzenfuß, la nobile gallina, l’orso Braun per averlo ingannato promettendogli di trovare del miele. Una delle sue astuzie preferite è quella di fingersi morto: così un carrettiere lo butta sul suo carretto pieno di pesci, pensando di guadagnare vendendo la sua pelliccia, e Reineke, allegramente, si riempie la pancia. Allo stesso modo si prende gioco di Merkenau, la cornacchia: «Vedemmo Reineke star come morto / nella brughiera, con gli occhi voltati / all’indietro, con la lingua fuori / dalla bocca aperta. Per lo spavento / gridai. Ma non si muoveva. / (…) Provai a toccargli / la pancia e la testa; anche mia moglie / s’avvicinò al mento per controllare / se ancora sentisse il respiro. Nulla: / avremmo giurato che fosse morto». Il seguito è rapido e cruento: «Dolente / e senza sospetti ella avvicinò / il becco alla bocca dell’impostore; / avvedendosene, il mostro scattò / feroce, e le strappò via la testa».

La crudeltà è un tema costante del racconto. Il povero Orso, che per le arti di Reineke si è trovato incastrato nello spacco di una quercia, si libera a fatica: «nell’atroce / sua sofferenza, strappò la testa / dallo spacco con forza; la pelliccia / e la pelle del volto e su fino / alle orecchie gli rimasero dentro / nell’albero». Il Coniglio viene aggredito da Reineke in una morsa fatale, e così si lamenta col Re: «Per fortuna mi divincolai e, dato che sono / leggero, balzai via; egli ringhiando / giurò di scovarmi. Io stetti zitto, / e mi allontanai, purtroppo però / si è tenuto un mio orecchio e col capo / inondato di sangue giungo da voi».
A volte questi tratti, indubbiamente sadici, vengono come smorzati nel grottesco, così Kratzenfuß, la nobile gallina assassinata da Reineke, ha diritto a sontuosi funerali: «La salma fu interrata / e coperta con una bella lastra / di marmo, lucida come un vetro, / squadrata, larga e spessa, e sopra / era scritto a lettere indubbie: / “Kratzenfuß, figlia di Henning il gallo, (…) ecco qui giace! Strappata ai suoi cari / per delitto di Reineke. Possan / tutti conoscere la sue falsità / e perfidia, e che tutti piangano / la virtuosa estinta”. Questo fu scritto».

Reineke il furfante, Reineke il criminale? Certo, ma il mondo che lo circonda, violento e ottuso, è ancora peggio di lui. Ecco le sue accuse ai potenti: «Come chiunque altro, il Re ruba, / noi lo sappiamo; quel che avanza lascia / prendere agli orsi e ai lupi, e nel giusto / crede di essere. Nessun si trova / che abbia il coraggio di dirgli chiaro / una verità tanto brutta – nessun / confessore, e nessun cappellano. / Tacciono tutti!». Qui parla anche Goethe, che alla nobiltà inetta e corrotta, che non è capace di operare riforme, che esiste solo per rapinare, attribuisce la massima responsabilità nello scoppio della Rivoluzione. E la Volpe continua, parlando di sé: «Reineke, / il poveraccio, acchiappa un pollo, / e tutti gli danno addosso, vogliono / mandarlo in galera, e unanimi / lo condannano a morte. I piccoli / ladri si impiccano facile, mentre / i grandi son privilegiati, terre / e castelli possono amministrare».

Il registro del racconto, rispetto al testo di Gottsched, «viene ammorbidito, alleggerito o raffinato», e Reineke «si emancipa dalla sua identificazione con l’arroganza e acquista in termini di grazia». Così scrivono le curatrici, che richiamano anche, molto opportunamente, una pagina della Campagna di Francia: «In mezzo a tali costellazioni nessuno, a tanta distanza dal vero teatro del disastro, era più oppresso di me, il mondo mi sembrava più che mai insanguinato e assetato di sangue. (…) Ma anche da queste orrende calamità cercai di salvarmi, dichiarando iniquo il mondo intero. In questa circostanza, per una speciale combinazione, mi capitò tra le mani Reineke Fuchs. Se fino a quel momento ero stato costretto a rimpinzarmi sino alla nausea di scene di strada, di mercato e di popolaccio, ora era davvero rallegrante guardare nello specchio della corte e del reggente, poiché, se anche qui il genere umano si manifesta in maniera del tutto naturale nella sua schietta animalità, tutto procede, se non in modo esemplare, per lo meno lietamente e il buonumore non si sente menomamente turbato».