Nel carteggio del 1924, tra inviate e ricevute, Piero Gobetti si racconta attraverso 1765 missive. Un buon numero di lettere gobettiane erano già state pubblicate da Einaudi, con la sempre attenta cura di Ersilia Alessandroni Paroni, riferite al periodo 1918-1922 (nel 2003), e al 1923 (nel 2017).

Le lettere di questo terzo volume (Piero Gobetti, Carteggio 1924, pp. CXLXI-1507, euro 120,00) corrispondono all’intensissima attività compiuta dall’intellettuale torinese su vari fronti, politico soprattutto, e anche editoriale.

Fu il ’24 un anno drammaticamente decisivo per le sorti dell’Italia, e Gobetti cercò di tradurre nei fatti, con forme e strumenti nuovi, l’obiettivo originario della sua «Rivoluzione Liberale»: operare per una modernizzazione politica del Paese.

A tale scopo furono fondati in varie città italiane i Gruppi della Rivoluzione Liberale, luoghi di aggregazione delle voci disperse, sia pure consonanti. Nell’impresa avevano avuto un ruolo centrale la casa editrice fondata da Gobetti nel 1923 accanto alla rivista letteraria «Il Baretti», pubblicata nel pieno della crisi Matteotti.

Colpisce anzitutto l’ingente quantità di messaggi ricevuti da Gobetti da tutta Italia, in gran parte da ignoti che manifestavano consensi e avanzavano proposte al giovane editore torinese, apprezzato per il suo coraggio e la sua significativa testimonianza.

È questa una chiave di lettura che il carteggio fa emergere: l’esistenza di un mondo sommerso e non disposto a cedere.

Gobetti aveva mutato la propria impresa editoriale in una ostinata e volitiva lotta contro il progressivo affermarsi del fascismo. Con le riviste «Energie Nove», «La Rivoluzione liberale», «Il Baretti» e con i suoi libri, contrassegnati dall’alfieriano distico «Che ho a che fare io con gli schiavi?», egli era riuscito a radunare attorno a sé, in un vivace dibattito epistolare, sensibili intelligenze politiche superstiti in un paese precipitato nel vortice di un sistema totalitario.

Uno Stato nazionale coinvolto da una moltitudine di aderenti a squadre di sudditi, sfociato in sistemi efferati e violenti, convinti di portare ordine in un paese dissestato.

Già dal 31 ottobre 1922, quattro giorni dopo la marcia su Roma, con un Mussolini che si era presentato nella capitale scortato dalle sue bande in armi per ricevere dal re l’incarico di formare un nuovo governo, i pochi dissidenti del nuovo sistema politico si confidavano tra loro.

Così Piero Gobetti si rivolgeva a Giovanni Ansaldo, redattore capo del quotidiano socialista di Genova Il Lavoro, a quel tempo uno dei più attivi collaboratori di «La Rivoluzione Liberale»: «Scrivi per favore a Cappa – corrispondente da Londra del Corriere della Sera – che mi mandi entro pochi giorni un saggio: squadrismo e fascismo… Voglio fare un elogio dei nuovi ministri, specialmente dell’ineffabile Gentile… Tengo molto alla cosa: tutto dovrebbe entrare in un numero imminente della rivista dedicato al fascismo… Mandami tutti i pensieri, trafiletti ecc. che vuoi per detto numero. Dobbiamo restare al nostro posto in attesa di essere soppressi o perseguitati. Poi faremo un giornale letterario con un linguaggio per iniziati o andremo in Russia o in Turchia a cercare un po’ di elementare libertà. Ma Mussolini promette le mitragliatrici e qui a Torino mi si fanno minacce aperte. Forse l’esperimento non sarà inutile. Ma un ministero Amendola con pieni poteri era la cosa migliore. Bisogna riprendere la questione istituzionale».

In quei giorni Gobetti era ormai perfettamente cosciente del suo avversario politico. Si sentiva persegutato.

Il 1° giugno 1924, tramite il Prefetto di Torino, ricevette un messaggio che assumeva l’epigrafia emblematica del duce: «Prego informarmi e vigilare per rendere continuamente difficile la vita di questo insulso oppositore governo e fascismo».

Subita una perquisizione a casa, Gobetti scrive a Malaparte: «Preferiremmo dal fascismo una condotta più intelligente perché è sempre meglio trovarsi con degli avversari sul serio. Il prefetto di Torino va diffondendo con le sue gaffes l’opera del governo, che in fin dei conti è un governo italiano, e se il fascismo a Torino fa ridere certo si deve in gran parte all’opera sua».

Gobetti riconobbe in Malaparte «la più forte penna del fascismo»; apprezzandolo nella schiera fra i collaboratori di «Rivoluzione Liberale», ne pubblicò Italia barbara e non esitò ad ammonirlo per il ritardo nella consegna di un nuovo romanzo, Viaggio in inferno (22 maggio 1924): «Sono assai sdegnato con te (…) Sinora il fascismo ha rovinato tutti gli uomini che ha reclutato. Non sono più riusciti a scrivere nulla di buono».

Intanto, a seguito di continui controlli e sequestri, «La Rivoluzione liberale» si avviava alla sua scomparsa. Seguiva la sorte de «Il Caffè», pubblicato a Milano da Riccardo Bauer, con Parri, Gallarati Scotti, Arpesani, Borsa e Sacchi. Chiudeva il fiorentino «Non Mollare» di Salvemini, Ernesto Rossi e dei fratelli Rosselli e di altre voci invise al regime.

Molti personaggi dell’antifascismo sono i corrispondenti di Gobetti nel tragico 1924. Nel frattempo egli publicava un saggio sulla politica in Italia, che riprendeva nel titolo – La Rivoluzione Liberale – quello della sua rivista. «Il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e unanimità. La lotta tra serietà e dannunzianesimo è antica e senza rimedio… a un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio. All’individualismo (che resta la prima base dell’azione, e segna il primo affermarsi di una coscienza e di una dignità civile nell’uomo) si è sostituita la morale della solidarietà, una specie di calcolata complicità nel parassitismo. Il problema del movimento operaio è problema di libertà e non di uguaglianza sociale». Questa era (ed è) l’Italia dei liberali a chiacchiere e anti-liberali nei fatti…

La lezione di Piero Gobetti è politicamente attuale per l’impressionante lucidità con cui può prestarsi a descrivere i fenomeni dei nostri giorni e diagnosticarne la patologia.

Riletto oggi, il libro di Gobetti pubblicato nel ’24 sorprende per le molte notazioni originali sul Risorgimento e sulla lotta politica del tempo. Affiora per esempio la considerazione di Cavour come autore di una grande rivoluzione liberale rimasta incompiuta, e dello stesso Risorgimento come «rivoluzione mancata», dalla presenza di una singolare cultura moderna «in questo vecchio Stato nemico della cultura».

Gobetti usa per la prima volta nel suo saggio il concetto di fascismo come autobiografia della nazione. Sono i giorni che precedono la scomparsa di Giacomo Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato soltanto in agosto. Si ha la certezza, anche subito, che si tratti di un omicidio perpetrato da sicari fascisti.

Il 1° luglio 1924 Gobetti ne traccia il profilo: «Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti (…). Vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li pagava, come medievale crudeltà e torbido oscurantismo. (…) Sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo».

Per Gobetti, Matteotti rappresentava l’italiano ideale: colui «che non se la intende col vincitore, che combatte alla luce del sole, che conosce il disprezzo delle sagre, dei gesti, che non si arrende alle allucinazioni collettive, che non ha bisogno di chiamare eroismo la sua ferma coscienza morale».

Dalle colonne della «Rivoluzione Liberale» Gobetti auspica l’unione di uomini, quanto resta dei partiti antifascisti che combattono questo fenomeno politico che trae la sua affermazione dalla creazione di un esercito di parassiti dello Stato… Occorre, a questo scopo, formare un’economia moderna con un’industria «libera da ogni protezionismo e da ogni paternalismo di Stato» e con «una classe proletaria politicamente intransigente» … «La guerra al fascismo è questione di maturità storica, politica, economica».

Questi articoli e un altro in cui accusa il deputato fascista, grande invalido di guerra, Carlo Delcroix di manovre parlamentari definite «aborti morali», provocarono il sequestro della rivista e una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Gobetti riceve lettere di solidarietà.

Tommaso Fiore pubblica un articolo contro il criminale fascista Amerigo Dumini: l’uscita dell’articolo, il 23 settembre 1924, fornisce al prefetto di Torino il pretesto per sequestrare la rivista. Inoltre, a Gobetti viene proibito l’esercizio di qualsiasi attività pubblica.

Si recò a Parigi, morirà in una clinica di Neuilly-sur-Seine il 15 febbraio 1926 per le conseguenze dell’aggressione subita. Non aveva ancora compiuto venticinque anni.