«Gli oceani sono i veri continenti», una cubana poetica della distanza
Al cinema L'esordio di Tommaso Santambrogio in sala dopo la prima alle Giornate degli Autori veneziane. Girato a Cuba, intreccia le storie di diversi personaggi in uno spazio vuoto pervaso di malinconia
Al cinema L'esordio di Tommaso Santambrogio in sala dopo la prima alle Giornate degli Autori veneziane. Girato a Cuba, intreccia le storie di diversi personaggi in uno spazio vuoto pervaso di malinconia
Una teoria della separazione – in mezzo agli esseri si frappone un oceano di distanza, tale da divenire, questo spazio liquido, vasto, percorso dalle brezze, dalle tempeste, gli scirocchi improvvisi (l’azione dell’acqua sui sentimenti), i continenti su cui si sedimenta il senso, la verità dell’opera, una verità di lacerazione – sembra essere al centro del nuovo film di Tommaso Santambrogio, Gli oceani sono i veri continenti, presentato alle Giornate degli autori della Mostra di Venezia appena trascorsa, e in sala già da qualche giorno. Del resto Santambrogio non è nuovo alla Mostra essendo passato nel 2021 per il laboratorio di Sic@Sic, la sezione di cortometraggi della Settimana Internazionale della Critica, che negli ultimi anni ha messo in mostra sguardi interessanti, spesso vibranti, iniziatici: oltre Santambrogio, Alain Parroni, vincitore quest’anno del Premio Speciale della Giuria a Orizzonti per il suo primo lungometraggio Una sterminata domenica, anch’esso nelle sale – il corto Adavede (nella Sic del 2017) aveva già quella ruvidità e il misterioso livore, la selvatichezza propria di Carpignano, e un senso dei suburbi e del tragico suburbano come pasoliniani -, o Maria Guidone e Chiara Caterina (per fare solo altri due nomi di un gruppo cospicuo), attese ora alla prova del lungometraggio.
I PRIMI LAVORI di Santambrogio avevano avuto l’egida di due mostri sacri del cinema contemporaneo, maestri di sperimentazione e fenomenologia cinematografica: Herzog nel documentario The Last Scene (2019) e Lav Diaz che compare come protagonista in quello strano oggetto cinematografico che è Taxibol, mediometraggio d’ambientazione cubana, visto quest’anno al festival di Vision du Réel. Ed è proprio da qui che parte Gli oceani sono i veri contenenti: dall’ecosistema fuori dal tempo di Cuba e da un incedere dello sguardo su questo sfondo metacronico che ha molto di Lav Diaz, a partire dal bianco e nero che satura le sagome d’aria slavata, slabbrata, di ombre intente a ruminare, rimuginare, riesumare fantasmi in celluloide (danzanti nelle orbite oculari di Alex, amante del cinema, sognatore); e che apre l’inquadratura a campi lunghi, vertiginosi, misurati dalla fissità (e dalla durata) o solo da qualche lieve movimento di macchina. E poi si potrebbe citare Kieslowski per il senso della circolarità che ha questo film, un disegno destinale entro il cabotaggio che i personaggi compiono dentro l’habitat di San Antonio De Los Baños, fino a ritrovarsi, alla fine, nel crocevia sferragliante della stazione. Ma Gli oceani non è un film pedissequo, troppo condizionato dai referenti: Santambrogio, come già in Taxibol, trova una sua cifra specifica, una poetica che si sostanzia in misura della distanza attuata o paventata tra gli esseri, tra i personaggi in balia di tempo e spazio fattisi oggetto, paesaggio; che diviene subito una politica dello iato esistente tra due mondi: l’occidente del capitale e l’eremo cubano, in rovina eppure intatto. Una distanza, uno spazio vuoto, potenziale, che si riempie del senso della malinconia (per la perdita) e regola i protagonisti del film, fomentato dallo sfondo decadente.
Le rovine, i segni del tempo, di un mondo anacronistico, autarchico (per scelta propria o per embargo altrui) amplificano il senso della distanza, della perdita: dilatano via via questo spazio fittivo (oceanico) entro cui si deposita e germina il continente della malinconia, in un brulicare perpetuo di grana immaginale. Il complesso di ruderi (campi sportivi scalcinati, case diroccate, rimesse d’auto ischeletrite, rugginose, dove si aggirano i fantasmi chiaroscurali dei bambini) implica, avvolge l’esistenza degli umani. Milagros, Alex, i due ragazzini che sognano il baseball professionistico eppure non vogliono che le cose cambino (campeggia Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, regalato da Edith ad Alex); franano, s’infradiciano di lontananza a mano a mano che prendono coscienza dell’assenza, dell’abbandono serpeggiante.
L’INIZIO era stato rituale, teatrale: Alex crocifisso (passerà i suoi ultimi giorni con Edith ad aggrapparvisi disperatamente, nella coscienza che l’amplesso, l’amore, non sarà più, che lei partirà e non gli resterà che il calco della sua presenza), su una zattera vegetale si allontana lentamente da Edith, mentre Milagros vende noccioline e i due bambini ne comprano, in un cono. Anche le lettere di Milagros grondano, macerano intrise di malinconia, e quelle scritte da Alex mentre constata di una traccia, di una forma cava (come direbbe Renato Serra) lasciata da Edith tra le lenzuola dell’alcova e le tavole del palcoscenico e le intercapedini aeree, piovose della provincia cubana: un continente di segni, di sentimenti, che si riempie del «Mai-più».
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