Sono quarantotto le aziende calzaturiere italiane che, da martedì, si trovano a Mosca per la fiera «Obuv’ Mir Kozhi» (Scarpe di pelle dal mondo). Nel mezzo della guerra, mentre i paesi occidentali varano pacchetti di sanzioni sempre nuovi contro la Russia, la vicenda degli «scarpari» tricolori che allestiscono stand e provano a combinare affari nel paese di Putin ha contorni vagamente surreali, anche perché non riguarda solo dei privati ma anche due regioni, le Marche e l’Emilia Romagna: la prima è intervenuta dando un contributo a ogni azienda locale (trentuno in totale) partita per Mosca, la seconda attraverso la partecipata BolognaFiere, che addirittura figura tra gli organizzatori dell’Obuv’ e che, poco più di un mese fa, aveva vietato l’esposizione e la presentazione di libri russi alla Bologna Children’s Book Fair, la rassegna di libri per ragazzi che si svolge ogni anno nel capoluogo emiliano.

Le giustificazioni per la trasferta moscovita sono tutte a base di cavilli e dettagli tecnici. Per BolognaFiere «non c’erano appigli giuridici per cancellare gli accordi», per la Regione Marche il punto è che i contributi erano già stati stanziati con il Piano dell’Internazionalizzazione 2021-22 (dove peraltro compariva un’altra fiera delle calzature, a Kiev, che però è saltata per ovvi motivi) e a quel punto la scelta se andare o meno riguarda esclusivamente gli imprenditori.

Nei racconti che arrivano da Mosca la guerra sembra non esistere. C’è chi ha avuto problemi alla dogana – «I funzionari russi non capivano come fosse possibile esibire una lettera d’invito da parte di un cittadino di un paese ostile» -, chi ha dovuto consegnare lo smartphone e adesso teme di essere spiato e chi, scampate le rogne all’aeroporto, si è avventurato in città e ne descrive il clima «tranquillo e sereno», almeno all’apparenza.

«Qual è il problema se siamo qui? La legge è chiara, non stiamo violando alcuna sanzione», sostiene Valentino Fenni, vicepresidente di Assocalzaturifici con delega al mercato russo. È vero: l’embargo sui beni di lusso prevede che non si possano commerciare con la Russia articoli dal valore superiore a 300 euro e così le aziende hanno varato cataloghi con pezzi più economici.

Scomparso il «dovere morale» più volte evocato di estromettere i cittadini russi da ogni iniziativa pubblica, la faccenda in questo caso si spiega con pochi semplici numeri: alcune aziende, soprattutto quelle marchigiane, sostengono di basare gran parte del proprio export sulla Russia e sull’Ucraina (un paio su tre, secondo Mediobanca), che comunque rappresentano una fetta non grandissima degli affari dei calzaturifici italiani (il 2.7% delle esportazioni, meno del mercato europeo e di quello americano).

«Ci sono aziende che hanno l’80% del fatturato legato alla Russia e all’Ucraina – dice Arturo Venanzi, presidente di Confindustria Fermo –, il problema più importante, al momento, è il mancato pagamento di ordini e merce consegnata. Questo perché le banche italiane non lavorano più con la Russia: tecnicamente le sanzioni stanno fermando soldi nostri».

Secondo Assocalzaturifici, in Italia, i dipendenti del settore calzaturiero sono oltre 80mila. Il volume di affari, crollato nel 2020 a causa della pandemia, nel 2021 ha goduto di un rimbalzo da 9.5 miliardi di euro ed è cresciuto del 21% rispetto all’anno precedente, ma resta ancora distante (-6%) rispetto al 2019. Le aziende che producono scarpe di lusso sono cresciute molto di più, facendo segnare un +32% del 2021 sul 2020 e mettendosi sostanzialmente in pari con il periodo pre-Covid.