Gli “esodati” di Gaza
Palestina A cinque mesi dall'offensiva israeliana "Margine Protettivo" Gaza sprofonda nel baratro, tra una ricostruzione che ancora non parte e i contrasti perenni tra il governo di Ramallah e il movimento islamico Hamas. Il dramma delle vedove dei palestinesi uccisi dai bombardamenti della scorsa estate: sopravvivono sposando i parenti dei mariti morti
Palestina A cinque mesi dall'offensiva israeliana "Margine Protettivo" Gaza sprofonda nel baratro, tra una ricostruzione che ancora non parte e i contrasti perenni tra il governo di Ramallah e il movimento islamico Hamas. Il dramma delle vedove dei palestinesi uccisi dai bombardamenti della scorsa estate: sopravvivono sposando i parenti dei mariti morti
Amr e Ahmed, 29 e 34 anni, si svegliano alle prime luci del giorno. Ed escono in strada poco dopo. Il primo con una vecchia automobile va alla ricerca di oggetti di metallo o di plastica che potrebbero essere riciclati. Il secondo lava tazze e bicchieri nel minuscolo caffè di proprietà di uno zio della moglie, a Tel el Hawa, a Gaza city. Entrambi non portano a casa più di 500 shekel al mese, circa 100 euro, ed entrambi fino ad un anno fa erano dipendenti del governo del premier di Hamas, Ismail Haniyeh. Per Amr e Ahmed la riconciliazione tra l’Anp di Ramallah e il movimento islamico a Gaza dopo la gioia iniziale si è rivelata devastante. Sono senza stipendio da quando, lo scorso giugno, è stato formato il governo di consenso nazionale palestinese ed è stato sciolto l’esecutivo di Haniyeh. Nelle stesse condizioni si trovano tra 40 e 50 mila abitanti di Gaza, “esodati” palestinesi lasciati al loro destino, assieme alle famiglie, da un governo che non è mai realmente entrato in carica e che non ha mai esteso alla Striscia la sua autorità.
«Ero impiegato al ministero della sanità, la vita non è mai stata facile perchè lo stipendio non arrivava mai puntuale – racconta Ahmed – però sapevo che presto o tardi quei soldi me li avrebbero dati. Non tanti, 1500 shekel (circa 300 euro, ndr) ma almeno potevo assicurare il pane ai miei figli». Soldi che varie parti arabe e islamiche donavano al governo di Hamas, Qatar in testa. Poi quell’aiuto è sensibilmente diminuito, sotto l’urto delle alleanze ballerine in Medio Oriente e del colpo di stato in Egitto che ha isolato Gaza. Amr ha una storia simile a quella di Ahmed. Pochi mesi fa faceva parte nella segreteria di un ufficio periferico del ministero dell’interno. Oggi passa ore ed ore a rovistare tra cumuli di detriti. «Ma non nelle rovine delle case (private) distrutte da Israele, lì solo coloro che ci vivevano hanno il diritto di recuperare qualcosa», ci tiene a precisare Amr, ricordando il rispetto per coloro che hanno perso tutto, spesso anche la vita, nei bombardamenti israeliani della scorsa estate su Gaza.
La condizione a dir poco precaria di queste decine di migliaia di ex dipendenti pubblici abbandonati dal nuovo governo, è uno dei motivi di maggiore tensione tra Hamas e l’Anp a Ramallah. Il movimento islamico lancia accuse pesanti all’esecutivo del premier Rami Hamdallah, che a Gaza è stato soltanto una volta e per poche ore. «Trovo assurdo che l’Autorità nazionale palestinese da quasi 8 anni continui a pagare lo stipendio a oltre 20mila dipendenti pubblici (dell’esecutivo precedente alla presa del potere di Hamas nella Striscia nel 2007, ndr) ai quali chiede di non lavorare e allo stesso tempo neghi il salario a chi invece lavorava e vorrebbe continuare a farlo», ci dice Mahmoud Zahar, uno dei fondatori di Hamas ed ex ministro degli esteri, accogliendoci nel suo ufficio a Gaza city. «Hamdallah e (il presidente) Abu Mazen – aggiunge – trattano questi lavoratori di Gaza rimasti senza alcun reddito come se fossero militanti di Hamas e non come dei semplici cittadini impiegati nei servizi pubblici. Eppure stiamo parlando di padri di famiglia, spesso di giovani appena sposati, di essere umani». Ritorna, irrisolta, la questione dei cosiddetti “Dayton” (dal cognome del generale Usa Keith Dayton che tra il 2005 e il 2010 supervisionò l’addestramento delle forze di sicurezza dell’Anp). A Gaza identificano così le migliaia di dipendenti pubblici ai quali Abu Mazen e l’allora premier dell’Anp Salam Fayyad ordinarono di cessare ogni attività lavorativa all’indomani della presa del potere di Hamas. Da allora tutti i mesi, o almeno quelli in cui da Ramallah riescono a mandare i fondi alla Palestine Bank di Gaza, migliaia di palestinesi che, ufficialmente, non lavorano da quasi 8 anni ricevono lo stipendio mentre altre decine di migliaia impiegati fino a pochi mesi fa sono diventati invisibili, come se non esistessero.
È un paradosso che aggrava la condizione di Gaza, rapidamente dimenticata dal mondo, come con ogni probabilità aveva previsto il governo israeliano al termine dell’offensiva “Margine Protettivo” della scorsa estate. 2200 morti palestinesi, 11 mila feriti, 96 mila case in macerie. Vite umane e distruzioni che non interessano più a nessuno, a cominciare dai “fratelli arabi” e dalle democratiche nazioni occidentali. Le promesse di aiuto fatte lo scorso ottobre alla conferenza del Cairo – 5,4 miliardi di dollari – non sono state mantenute. L’Unrwa, l’agenzia che assiste i profughi palestinesi, che attendeva una porzione importante di questi fondi per garantire gli aiuti umanitari e la ricostruzione, ha già terminato i 77 milioni di dollari che inizialmente aveva avuto a disposizione per aiutare 66mila famiglie a riparare le loro case danneggiate. «Nelle nostre casse non ci sono più fondi. Decine di migliaia di palestinesi non hanno un tetto e noi non possiamo assisterli. Erano stati assicurati 5,4 miliardi dollari alla conferenza del Cairo ma praticamente nulla ha raggiunto Gaza sino ad oggi. Questo è doloroso e inaccettabile», ha avvertito un portavoce dell’Unrwa. La ricostruzione non è mai cominciata e la vita di 100 mila sfollati palestinesi resta un inferno, anche per la mancanza di energia. Occorreranno ancora mesi per poter rimettere in funzione l’unica centrale della Striscia colpita dall’esercito israeliano. Al momento la maggior parte della gente di Gaza ha elettricità per non più di 4-5 ore al giorno. E nelle scorse settimane il freddo ha ucciso almeno tre bambini e un adulto.
Le Nazioni Unite peraltro fanno i conti con l’asfissiante sistema di controlli che hanno avallato per garantire l’ingresso dei materiali a Gaza sulla base delle restrizioni dettate da Israele. Da settembre a oggi rari convogli di autocarri carichi di cemento hanno fatto ingresso nella Striscia. E la mancanza dei materiali non potrà certo essere risolta con il sostituto del cemento che ha ideato l’ingegnere Imad al Khalidi di Gaza, anche per abbattere i costi. Un sacco di cemento, quando disponibile, costa 150 skekel (34 euro), quello ideato da al Khalidi – di fatto il terreno stesso della Striscia con potassio, magnesio, ossidi metallici, calcare e sabbia, più calce macinata e una piccola quantità di gesso – 27 shekel (6 euro). Pochi però si fidano di questi “mattoni organici”, come li chiama l’inventore.
A Gaza di fatto non girano più soldi. E’ fermo quasi tutto dalla scorsa estate. I pochi apparati produttivi esistenti sono stati distrutti o danneggiati in gran parte dagli attacchi aerei e dall’artiglieria israeliana. E rimetterli in moto non sarà impresa facile. “Margine Produttivo” ha trascinato l’economia palestinese in recessione per la prima volta dal 2006. Mentre nel 2014 la Cisgiordania ha visto un’espansione del 4,5%, Gaza al contrario ha fatto segnare un -15%, secondo gli ultimi dati del Fondo Monetario Internazionale. Nel 2015 si prevede una lieve ripresa ma molto dipenderà dalla capacità dell’Anp di potere versare gli stipendi ai suoi dipendenti e, naturalmente, anche agli “esodati” di Gaza. E se in Cisgiordania la disoccupazione ufficiale si aggirerà intorno al 19%, nella Striscia sarà del 41%, tenendo ben presente che la percentuale reale di chi non ha un lavoro è molto più alta.
In questo contesto i più deboli – ossia le donne e i bambini già tra le vittime principali della guerra – sono tra i più esposti alla precarietà estrema. A cominciare dalle vedove, donne rimaste sole a prendersi cura dei figli, spesso piccoli. Per molte di esse, senza soldi e senza casa, l’unica soluzione è seguire la tradizione, ossia sposare un fratello o un cugino del marito ucciso dai bombardamenti. Ibtisan, 22 anni di Shujayea, il sobborgo orientale di Gaza city martellato per settimane dalle forze armate israeliane, vive con i due figli superstiti e il padre anziano tra le macerie, in ciò che resta della casa dove hanno trovato la morte il marito e un figlio di 8 anni. «Hassan e Tareq (il marito e il figlio,ndr) non fecero in tempo a lasciare la casa quando cominciarono a cadere le bombe» ricorda la giovane donna «abbiamo vissuto per settimane in una scuola, ora siamo tornati qui, nella nostra casa, anche se è in parte distrutta. La notte con mio padre e i bambini andiamo ancora in quella scuola, per ripararci dal freddo». Nel futuro di Ibtisam c’è una sola certezza, un’unica garanzia. «Sposerò mio cognato» ci dice «ha già una moglie ma si è detto disposto ad accogliermi assieme ai bambini e a mio padre. Per me è la salvezza».
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