Fra i tratti comuni alle nostre periferie urbane c’è la suggestione che di lì la Storia non passi. È così oggi come lo era negli anni Settanta, un periodo in cui pure «succedeva di tutto»: lo ricorda Davide Ferrario nella prefazione a La faglia, romanzo di Massimo Miro apparso in prima edizione dieci anni or sono per Il maestrale e ora riproposto in versione riveduta da Scritturapura con il sottotitolo «Il romanzo degli ultimi figli della classe operaia» (pp. 204, euro 15), che parrebbe ammiccare all’attualità della letteratura working class. Se però questa costellazione editoriale si occupa soprattutto di far parlare direttamente una classe lavoratrice di formazione recente ed eterogenea, il romanzo di Miro è piuttosto un’epica della periferia post-proletaria.

DEL RESTO non è dato di verificare quanto l’autore – già finalista al premio Calvino e di cui un paio d’anni fa si era apprezzato un fanta-noir ambientato a Berlino Est – condivida le biografie dei suoi personaggi; di certo invece se ne assapora il senso dell’invenzione romanzesca, di una narrazione capace di empatizzare con i protagonisti e con la loro fame di riscatto.

Il luogo è Borgo Stura, quartiere immaginario del suburbio torinese. Gomez, Novi, Ligu, Sgummo e Jumbo, figli di operai meridionali migrati al nord, crescono ai piedi dei maxi-condomini in fondo a via Rododendri, oltre la fenditura non riparabile – la «faglia» appunto – che separa anche figuralmente il primo tratto della strada, dove abitano i «cremini» e i «babbascioni», dal suo più degradato prolungamento popolare: qui rabbia e violenza dettano i toni e i modi della quotidianità, inframmezzate solo dal rombo dei ciclomotori, dalle radiocronache sportive o da piccole sventure che subito diventano aneddotiche e memorabili, a istituire un’identità di gruppo altrimenti consegnata a una sconsolata marginalità.

Sono i mesi conclusivi del processo alle Brigate Rosse, Torino è presa in una morsa di tensione, ma niente di tutto questo fa breccia nei figli perdenti degli operai: «Tra di noi non parlavamo mai di politica, tanto eravamo inadatti a qualsiasi profondità nelle cose». Eppure è qui che, nel maggio 1978, i cinque s’illudono per un giorno di poter fare il grande salto, allorché Jumbo, buttato l’occhio sulla prima pagina di una copia de «La Stampa» arrivata per sbaglio nel loro bar di fiducia, riconosce nel volto di Aldo Moro sotto la stella a cinque punte lo stesso uomo visto a casa, e persino nel letto, della ragazza che sta frequentando. Puntata sulla foto la stecca da biliardo, la decisione è presa: sottrarranno «il Presidente» a quell’insospettata cellula, intenzionati a trarne la meritata gloria: «ci saremmo presi tutto». Ma non ne avranno il tempo, il loro si rivelerà un passo fatale.

A RICOSTRUIRE TUTTO questo è Gomez, all’anagrafe Goffredo Mezzasalma, il solo dei cinque ad essere scampato alla misera sorte dei «grandiosi», come amavano definirsi. Fuggito a Milano dopo la naja, laureatosi ingegnere tra i figli dei borghesi e poi assunto nella ditta del suocero brianzolo, con un rapporto coniugale solo più «di facciata», nel luglio del 2006 viene cercato dalla madre di Jumbo, il quale all’epoca era caduto in coma e adesso si è risvegliato.

Così il ritorno di Gomez a Torino nel giorno di Francia-Italia, la finale dei mondiali di calcio, è un richiamo delle origini mai davvero abbandonate né in realtà abbandonabili, perché l’appartenenza di classe è qualcosa che resta attaccato alla pelle; ma diventa anche l’occasione per rievocare un’alleanza amicale che, pur nella penuria di destino, è stata il crogiolo di una qualche felicità.