«E lei come le giudicherebbe elezioni simili: legittime o meno?». Il professor Sayed Ahmad Hashimi ci accoglie nel suo ufficio. Una scrivania, tre divani lungo le pareti, al centro un tavolino basso con tè e caramelle. Siamo nell’università di Nangarhar, alle porte di Jalalabad, capoluogo della provincia orientale di Nangarhar. Centrale negli equilibri politici e sociali dell’Afghanistan per peso demografico e posizione geografica: un lungo e poroso confine con le aree tribali del Pakistan.

«CINQUECENTO DOCENTI, 13 facoltà, 17,000 studenti», snocciola Hashimi, che ci tiene a essere presentato come un religioso, «esperto di diritto islamico», non solo come rappresentante di categoria dei docenti. «Il risultato delle elezioni presidenziali è del tutto incerto, a votare sono andati solo due milioni di persone, la fiducia nel sistema è scarsa», sintetizza Hashimi, che non sembra particolarmente vicino al presidente Ashraf Ghani. Qui nel Nangarhar il tecnocrate pashtun Ghani, che si presenta come uomo di riforme e continuità istituzionale, ha una roccaforte elettorale diffusa e rivendicata, al contrario dell’antagonista storico, il primo ministro Abdullah Abdullah, volto dei panshjiri di Massud e del blocco tagico del Jamiat-e-Islami.

A due mesi dalle presidenziali del 28 settembre, non c’è neanche un dato certo: né il numero degli elettori, oscillati da 3 a 2 milioni (su un corpo elettorale di 9 milioni e su una popolazione di 35), né i risultati.

La Commissione elettorale ha cominciato il riconteggio dei voti, ma Abdullah Abdullah e altri candidati lo contestano. «Prima vanno tolti i voti irregolari», insistono, accusando la Commissione di favorire Ghani. Abdullah denuncia frodi, impone ultimatum e organizza manifestazioni, come quella di ieri a Kabul, dove ha mobilitato poche migliaia di persone.

«LE ELEZIONI non hanno funzionato per l’insicurezza, perché fino a poco prima erano tutti concentrati sull’accordo di pace tra Talebani e americani e perché la gente non si fida del sistema», nota Rohullah Lalpoorwal, membro della Training Human Rights Association for Afghan Women di Jalalabad. Si riferisce al lungo negoziato tra l’inviato di Donald Trump, Zalmay Khalilzad, e la delegazione talebana di Doha. Vicino alla firma quando il 7 settembre Trump l’ha mandato all’aria con un tweet. «Accordo firmato, elezioni annullate, pensavamo», ma è avvenuto il contrario. Ghani ha incassato. Voleva ottenere un mandato forte, da spendere nell’eventuale processo di pace con i Talebani. Ma la scarsa partecipazione, l’altalena dei risultati, i brogli, lo hanno indebolito aggravando la crisi istituzionale del governo di unità nazionale imposto dal segretario di Stato Usa John Kerry nel 2014. Quando Ghani e Abdullah si accusavano reciprocamente di brogli. Come ora.

Lo stallo sembra senza sbocchi. La Commissione elettorale insiste nel riconteggio. I sostenitori di Abdullah lo hanno impedito in alcune province settentrionali. «Se Ghani venisse dichiarato presidente, Abdullah non accetterebbe», prevede Lalpoorwal, che non ha idea di come uscire dall’impasse. L’Unione europea continua a respingere, come Ghani, l’ipotesi di un governo a interim o di coalizione. Una formula auspicata da Washington durante il negoziato con i Talebani e ancora oggi dall’ex presidente Karzai, che invita Ghani a riconoscere lo stato di crisi. Ghani ha tenuto il punto e incassato il sostegno di Washington. Lo deve allo scambio tra 3 autorevoli esponenti della leadership talebana e due docenti occidentali. Sequestrati a Kabul nell’agosto 2016, il 19 novembre sono stati rilasciati dai Talebani insieme a 10 soldati afghani. «Spero che lo scambio riporti al negoziato, ma ci deve essere anche un cessate il fuoco», sostiene Marhamat Jalal, docente di Diritto e Scienze politiche all’università privata al-Fala. È la stessa condizione posta dal governo Ghani agli studenti coranici. Rigettata a lungo. Ma forse non più.

Così ha fatto capire il presidente Trump nella visita inaspettata di giovedì alle truppe Usa nella base afghana di Bagram (vedi sotto, ndr). «I colloqui con i Talebani riprenderanno, noi pronti a ridurre le truppe, loro al cessate il fuoco. Se l’accordo si fa, si fa, se non si fa, non si fa», ha dichiarato Trump in contorsione retorica. Per ricucire in fretta lo strappo negoziale del 7 settembre, serviva un gesto simbolico. Ghani ha accettato la liberazione dei tre Haqqani, l’ala più oltranzista e cruenta, incassando critiche interne. In cambio di un secondo mandato e di un ruolo nel processo di pace, dicono molti.

NELLA BASE DI BAGRAM Trump ha lasciato per qualche minuto il palco a Ghani, che ha rivendicato il successo negli sforzi comuni contro il terrorismo internazionale e, con tono ossequioso, lodato «l’architetto» della grandiosa strategia per il sudest asiatico: Trump. Il quale non gli ha negato un incontro bilaterale per le photo-opportunity.

Ma la liberazione dei due docenti occidentali sequestrati dagli Haqqani non sarebbe venuta senza il via libera dell’establishment militare del Pakistan. Qui a Jalalabad l’ingombrante vicino è sentito come manipolatore e ostile. «In cambio del processo di pace, chiedono il riconoscimento della Durand Line», puntualizza Mohammad Anwar Sultani, analista politico di Jalalabad. La linea di demarcazione tra i due paesi disegnata a tavolino da Sir Mortimar Durand nel 1893. E mai accettata da Kabul.

Su quella linea transitano Talebani e jihadisti. Quelli dello Stato islamico avevano fatto del distretto di Achin, a ridosso del confine, la principale base operativa. Nei giorni scorsi si sono arresi dopo 4 anni alle forze di Kabul. Settecento, incluse mogli e figli. «Sì, abbiamo sconfitto Daesh e anche i Talebani oggi nel Nangarhar sono una forza residuale», dichiara al manifesto Ataullah Khogyani, portavoce del governatore provinciale. Rivendica fermezza militare, ma è pronto al dialogo: «Anche loro sono stanchi della guerra. Ricevono finanziamenti esteri, è vero, ma la leadership afghana saprà trovare il modo di parlare con il governo».

«SE ALLAH VUOLE, si parleranno», risponde sibillino l’ulema dell’università di Nangarhar. Per poi farsi prosaico. «Il Pakistan, la Cina, la Russia, sono tanti i governi che stanno spingendo i Talebani al dialogo», sostiene Hashimi. Per il quale le interferenze esterne rendono la sua terra fragile e conflittuale. Erodono la fiducia nel sistema. Vale anche per le elezioni: «Hanno votato in pochi perché c’è poca fiducia. E sa perché? Perché non siamo un paese sovrano».