«Giustificati a sparare». Breonna Taylor, una sentenza che brucia
In una Louisville in stato d’assedio il Gran giurì incrimina uno solo degli agenti che fecero irruzione in casa della 26enne infermiera afroamericana. La mobilitazione di gente comune e vip. Altissima tensione nelle strade, c'è anche la «black militia»
In una Louisville in stato d’assedio il Gran giurì incrimina uno solo degli agenti che fecero irruzione in casa della 26enne infermiera afroamericana. La mobilitazione di gente comune e vip. Altissima tensione nelle strade, c'è anche la «black militia»
Due agenti «erano giustificati a sparare», il terzo sarà incriminato per «condotta pericolosa» e rilasciato con una ragionevole cauzione, qualche testimone dice che i poliziotti avrebbero persino avvisato prima di buttare giù la porta. La morte di Breonna Taylor è tutta qui. E centinaia di manifestanti riuniti a Louisville, Kentucky in attesa del Gran giurì hanno cominciato a urlare, incolonnarsi, dirigersi downtown, verso il centro di una città da ore in stato d’assedio. Ancor prima che calasse la sera si registravano i primi contatt con le forze di sicurezza e i primi arresti.
Lo stato di emergenza deciso da un terrorizzato sindaco democratico, Greg Fischer, è scattato preventivamente a mezzanotte. Barricate lungo le arterie principali, i 25 isolati del centro chiusi al traffico tranne poche aperture pedonali, polizia precettata in turni di 12 ore, uffici pubblici e tribunali chiusi fino a nuovo ordine, quelli principali sbarrati da assi inchiodate – come molti negozi del centro. La Guardia nazionale mobilitata, fortunatamente nelle caserme. Coprifuoco dalle 9 di sera.
Louisville non aspettava un uragano. Aspettava la decisione sul caso di Breonna Taylor. Aspettava di sapere se quei tre poliziotti bianchi dell’antidroga che avevano fatto irruzione nella casa di un’infermiera nera di 26 anni (in borghese, in piena notte e fino a ieri anche senza traccia di avvertimenti preventivi) avevano motivo di ucciderla sparandole addosso otto volte.
Breonna Taylor è diventata una causa celebre. Lewis Hamilton è sceso dalla sua Mercedes al Mugello con una maglietta per lei («arrestate quei poliziotti», e la Fia gli ha anche graziato la multa), la rivelazione del tennis mondiale Naomi Osaka ha vinto agli Us Open con il suo nome scritto sulla mascherina, celebrità e normal people si sono mobilitati e hanno continuato anche quando il tribunale della contea di Jefferson ha condannato la polizia a pagare alla famiglia 12 milioni di dollari di danni. Stabilita una colpa, mancavano i colpevoli.
Nell’attesa l’agente Brett Hankison, il solo incriminato, che ha sparato 10 colpi alla cieca finiti anche nell’appartamento vicino, è stato licenziato, l’agente Miles Cosgrove che ha sparato 16 colpi tra cui il solo colpo fatale è stato messo dietro una scrivania, il sergente Jonathan Mattingly, che ha sparato 6 volte, ha scritto una email a tutti i colleghi in blu: «Quella notte abbiamo fatto la cosa legale, morale e etica, i buoni vengono criminalizzati».
[do action=”citazione”]Tutta colpa dei fidanzati di Breonna: quello di prima era il ricercato, quello di adesso, terrorizzato dall’irruzione notturna, aveva sparato per primo.[/do]
Dopo cento giorni di manifestazioni e 118 giorni di ininterrotta occupazione del centrale Jefferson Square Park, Louisville non è più da un pezzo la città dove nacque Cassius Clay, o quella del letale pollo fritto del Colonnello, o delle venerande mazze da baseball Louisville Slugger che l’interbase dei Cardinals Honus Wagner pubblicizzò per la prima volta al mondo, inventando nel 1905 il concetto di sponsor. La più grande città del Kentucky, che porta il nome di un re che perse la testa sulla ghigliottina, è ormai una capitale delle proteste nere d’America, e gli oltre 700mila louisvillers devono districarsi tra l’indecenza di un omicidio di polizia, le proteste che ha scatenato e – se non bastasse – i gruppi armati che si sono mobilitati.
Non più solo bianchi, i portatori di schioppo nelle strade, e questa è una relativa novità. Proprio a Louisville si sta facendo un nome la Nfac, Not Fucking Around Coalition, si potrebbe tradurre «Quelli che fanno sul serio», un gruppo paramilitare che si definisce black militia («non dimostranti, non manifestanti»). Sono nati in Ohio andando a disturbare una marcia del Ku Klux Klan e sono arrivati a Louisville quando il movimento nero ha deciso di manifestare contro il Kentucky Derby, la celeberrima corsa di purosangue che normalmente è il paradiso dell’alta società bianca, dei cappellini e del mint julep, discutibile beverone a base di bourbon, soda, zucchero e menta.
Quest’anno no, dopo 150 anni i proprietari hanno dovuto superare un cordone di manifestanti e di megafoni, e questo era scontato, e gruppi di neri in abiti militari neri e dotati di fucili automatici – vietatissimi persino nel paese più armato del mondo, ma cambiare l’otturatore singolo con uno a raffica è quasi uno scherzo e tra un po’ i kit li venderanno da Walmart. Quel giorno Grandmaster Jay, il leader e unico portavoce del Nfac, ha chiarito: «Non punteremo mai un’arma su nessuno… per primi». È gente a cui la pervicace nonviolenza unilaterale di Black Lives Matters va sempre più stretta, e lo squilibrio tra destre militarmente libere e politicamente coperte e sinistre ingessate o timide appare sempre più odioso. E ce n’è già tanta dalla parte opposta, all’estrema destra: Bogaloo Bois, Oath Keepers, 3 Percenters… le sigle si stanno moltiplicando.
Una gioia per il presidente Trump e gli armatissimi seguaci, che battono su legge & ordine mentre il Klan e i suprematisti bianchi imbracciano qualsiasi cosa e i media trumpisti parlano indecentemente di opposti estremismi.
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