La notizia della morte di Giovanna è arrivata come un lampo a lacerare e a interrogare il vuoto e il buio di questo nostro tempo doloroso. Una stagione di sofferenza anche per la «sua» musica popolare. «Siamo dei sopravvissuti – mi diceva spesso – in questo paese sempre più scollato che fatica a riconoscersi». Però non si fermava, nonostante la difficoltà a leggere le note, le ginocchia affidate alle stampelle e l’artrite che complicava il movimento delle dita sui tasti della chitarra. Tutto questo non la fermava, anzi aggiungeva bellezza e tenerezza al suo canto e alla sua persona. Così quando le ho proposto di partire per il Salento, nel 2019, a girare il nostro documentario (A Sud della musica. La voce libera di Giovanna Marini) non c’ha pensato due volte: l’ha vissuto come un viaggio faticoso, ma necessario, per ricordare e riproporre quell’altro mondo opposto e dimenticato, «dove tutto era sulla pelle, dove tutto bruciava e si moriva».
Giovanna Marini era scesa in Salento la prima volta, tra il 1969 e il 1971, perché le avevano detto che lì sanno cantare bene, e perché questo prevedeva la militanza nel Nuovo Canzoniere Italiano e la «religione del registratore» di Gianni Bosio. E tuttavia la sua ricerca è diversa da tutte le altre. Per lei la musica è prima di tutto libertà; e arriva in Salento per capire come funziona il canto contadino (la sua diversità, la sua alterità), per impararlo, studiarlo, farlo conoscere. Più tardi parlerà di viaggi di vera e propria testimonianza. Testimoniavano l’importanza di quella cultura, e insieme il suo amore per il Sud. «Quando Giovanna tornò dal Salento, – ricorda Alessandro Portelli – scrisse un articolo per I giorni cantati, che cominciava: «Prima cercavo i suoni, adesso cerco le persone». Perché l’identità che le persone esprimono attraverso i suoni è il fondamento di ogni politica». Un concetto molto vicino a quello usato da Pasolini a proposito del friulano: una lingua dei contadini buona per chiedere da mangiare, da bere, per chiedere di fare l’amore, di cantare, di lavorare.Il suo arrivo in Salento per comprendere come funziona il canto contadino

PASOLINI è un riferimento costante nell’opera di Giovanna, come racconto in un libro uscito per BesaMuci l’anno scorso (Il me paìs al è colòur smarit. Pier Paolo Pasolini e Giovanna Marini). Anche per quanto riguarda il Sud, inteso dal poeta friulano come grande periferia, un universo a parte, di classe, destinato a resistere, «perché i suoi valori sono superiori a quelli della borghesia». Una nazione nella nazione, come dirà nelle Ceneri di Gramsci, una nazione di «analfabeti in possesso del mistero della vita». Un Sud che Giovanna riporta in vita, ricantandolo a modo suo, nel 1972, su uno dei treni diretti a Reggio Calabria, insieme a una folla bellissima e unica di operai, contadini, immigrati di ritorno, vecchi e giovani, ognuno con le sue canzoni e le sue storie. Un treno che diventerà I treni per Reggio Calabria: una ballata epica e poetica, su un ritmo micidiale e «le parole che si incollano alla musica scivolandoci dentro senza sforzo». Un brano che Pasolini, prima di morire, aveva ascoltato e amato. «In quei giorni – ricorda Marini – registro canti che poi riproporrò in giro per più di 30 anni, che tutti i miei allievi conoscono, fondamentali per scoprire i modi del canto contadino».

ED È con Pasolini che il film si chiude. Con la sua morte vicino al mare di Ostia, vissuta da Giovanna come una perdita assoluta e incolmabile. È il 2 novembre 1975. Solo 10 giorni prima, Pasolini era tornato in Salento, a Calimera, ad ascoltare canti d’amore e di morte in lingua grika. È la chiusura del cerchio, sancita dal Lamento per la morte di Pasolini, scritto da Giovanna utilizzando il modulo di una passione contadina abruzzese insieme allo svolo impressionante dei lamenti funebri salentini. Tutto questo e altro era Giovanna Marini, l’ultima geniale musicista capace di stabilire un contatto vero e profondo con l’universo misterioso, straziante e terribile del canto di tradizione orale.