Giorgetti ammette: nel 2024 la crescita sarà sotto l’1%
Sembra quasi che ci siano due ministri dell’Economia, quasi identici non solo nel nome, Giancarlo Giorgetti, ma anche nei progetti e negli obiettivi. Una sottile differenza però li separa: il primo, quello che pochi giorni fa fu intervistato da Bloomberg, è consapevole del prezzo che quegli obiettivi costeranno, sa che qualcuno li dovrà pagare e, Costituzione alla mano, azzarda la proposta dettata appunto dalla Carta, che siano cioè quelli che fanno e hanno fatto di recente più «profitti e più ricavi». Più quattrini.
L’ALTRO, quello che ieri ha illustrato il Piano strutturale di bilancio e la manovra in Parlamento, di fronte alle commissioni Bilancio congiunte, glissa sui costi, cancella i passaggi sullo «sforzo eccezionale» che dovrebbero sobbarcarsi i meglio piazzati.
NON CHE GLI OBIETTIVI siano stati ridimensionati né che la situazione sia all’improvviso migliorata. Al contrario, rispetto a quella pur recentissima intervista si è fatta un po’ più aspra. Lì una crescita del Pil dell’1% nel 2024 era dato praticamente per certo. Ora il ministro ammette che i nuovi dati Istat «ne rendono più difficile il conseguimento». Ma niente paura: il dato non inciderà sui prossimi anni e infatti la previsione per il 2025 resta quella di una crescita dell’1,2%.
POI CI SONO LE GUERRE che «non incidono solo sugli investimenti ma anche sui consumi» e anche da quel punto di vista questi pochi giorni certo hanno reso le nuvole più dense. L’obiettivo «ambizioso ma realistico» resta quello di un rientro nel parametro del 3% sul deficit entro il 2026 e quindi fuori dalla procedura d’infrazione a partire dall’anno successivo, e di una «più rapida riduzione tra l’indebitamento netto e il Pil». Riduzione che è «una necessità ineludibile». Anche perché la Ue non ci permetterebbe comunque di eluderla.
LA TRAIETTORIA del governo italiano prevede una crescita netta della spesa annua dell’1,5%, con un picco dell’1,9% nel 2027 che, vedi la coincidenza, è l’anno delle elezioni e bisognerà essere di manica larga.
L’AGGIUSTAMENTO è nell’arco di sette anni non di quattro e cosa chiederà in cambio della dilazione l’Europa è oggetto di «una trattativa in corso». I settori da riformare in cambio dei sette anni elencati dal ministro non sono precisamente secondari: giustizia, fisco, «miglioramento dell’ambiente imprenditoriale», pubblica amministrazione, «migliore previsione e programmazione della spesa pubblica», che può voler dire molte cose e quasi tutte poco tranquillizzanti.
PER LA MANOVRA le priorità fissate dal ministro sono cinque: conferma del taglio del cuneo e dell’accorpamento delle aliquote Irpef, interventi a favore delle famiglie numerose e della natalità, stanziamento di fondi per il contratto della Pubblica amministrazione da rinnovare e anche, bontà loro, della sanità. Inutile aspettarsi delucidazioni sulle fonti dalle quali scaturiranno le coperture ancora vacanti, una decina di miliardi. Altrettanto inutile cercare nella comunicazione del ministro accenni alle maggiori entrate che saranno necessarie per raggiungere gli obiettivi delineati su deficit e debito e aggiustamento.
IL GIORGETTI DI IERI, a differenza di quello della settimana scorsa, sembra vedere solo la colonna in rosa, quella dove le cifre sono confortanti. Il deficit che sarà ridefinito al 3,8% mentre in aprile era previsto il 4,3%. Il debito al 135,8% invece che al 137,8%. Una revisione al rialzo dei dati 2023, che il ministro considera «probabile alla luce del buon andamento dell’occupazione». Ma la revisione al ribasso è dovuta alle stime corrette degli anni precedenti, quelli del rimbalzo dopo la crisi Covid, e i dati sulla produzione industriale autorizzano per il 2024 ottimismo molto minore.
DELLE ENTRATE, che le si chiamino tasse o contributo eccezionale, ci sarà bisogno come il Giorgetti di Bloomberg sapeva benissimo. Ma la maggioranza non ne vuol sapere, o almeno non ne vuole parlare e il Giorgetti di ieri si è dovuto adeguare.
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