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Gilbert Simondon, cultura e tecnica pas de deux

Gilbert Simondon, cultura e tecnica pas de deuxGeorges Braque, «L’oiseau dans le feuillage», 1961

Pensatori del '900 Dall'anomalo filosofo del secondo dopoguerra, l’invito a ripensare l’agire politico in una prospettiva ecologica: «Immaginazione e invenzione», da Mimesis

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 7 gennaio 2024

Né umanista né antiumanista, né idealista né materialista, Gilbert Simondon è un’anomalia nella filosofia francese del secondo dopoguerra: rifugge le alternative e pensa sempre i problemi entro lo spettro delle soluzioni possibili. Il postulato del suo pensiero è uno soltanto: ogni discorso e ogni agire sono parte della natura in divenire. Che non esistano una forma e un ambito predeterminati dell’umano è per lui, negli anni Cinquanta, il presupposto fondamentale di un progetto di rifondazione delle scienze umane sulla base della fisica quantistica e della teoria cibernetica dell’informazione. Per noi, oggi, la filosofia di Simondon è un invito a ripensare l’agire politico in una prospettiva pienamente ecologica, capace di coniugare tecnica e immaginazione, scienza, e critica dell’ideologia.

Di Simondon, noto soprattutto grazie alla sua enciclopedica filosofia dell’individuazione e all’originale filosofia della tecnica, è ormai accessibile in francese l’opera completa grazie al lavoro della figlia Nathalie, mentre la traduzione italiana procede in ordine sparso – da L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e d’informazione (traduzione a cura di Giovanni Carrozzini, Mimesis 2020) a Del modo di esistenza degli oggetti tecnici (a cura di Antonio Stefano Caridi, Orthotes 2021). Il corpus esistente consente comunque già di bypassare gli accenni, seppure lusinghieri, presenti negli scritti di Marcuse e di Deleuze, così da poter, finalmente, ricomporre buona parte di un puzzle molto complesso.

In debito con Bachelard

Il volume Immaginazione e invenzione, finalmente disponibile anche in italiano (traduzione a cura di Roberto Revello, Mimesis, pp. 236, euro 22,00), ne è una tessera molto importante: riproduce un corso che Simondon tenne alla Sorbona nell’anno accademico 1965-1966 nel contesto del certificat de psychologie générale per un pubblico misto di studenti di filosofia e psicologia. Suo filo conduttore è il «ciclo dell’immagine», che nell’organismo ha inizio come anticipazione motoria e percettiva, passa attraverso la produzione di «oggetti-simboli» e giunge fino all’organizzazione del contenuto affettivo e cognitivo in funzione della soluzione di problemi.

Tuttavia, ciò con cui i lettori hanno davvero a che fare è una riflessione filosofica sul modo in cui l’individuo prende forma nella sua relazione con l’ambiente, proprio mentre contribuisce a modificarlo attraverso processi immaginativi e collettivi oltre che cognitivi e individuali.

Purtroppo, le condizioni poste agli editori dai detentori dei diritti comportano la mancanza di un apparato critico che ne faciliterebbe la lettura; ma leggere questo testo alla luce delle due opere maggiori ne evidenzia la portata filosofica. Vi si coglie, anzitutto, qualcosa di molto simile a un materialismo di tipo storico, decentrato rispetto all’individuo e che rimanda decisamente alla radicale filosofia del divenire sviluppata nell’Individuazione, in cui ogni realtà è concepita come «in corso di individuazione». Ciascun «essere» è in questo senso parte attiva e integrale di processi e relazioni di cui è tanto germe quanto esito provvisorio, preso in un divenire sempre incompiuto e parzialmente indeterminato.

D’altro canto, la precarietà di una conoscenza che emerge dal ciclo dell’immagine ricorda i tratti di una filosofia dell’immanenza; ma solo a patto che non si sottovaluti la specificità della conoscenza tecnica e scientifica. Il testo segue il generarsi di immaginazione e conoscenza da dinamiche tanto organiche quanto relazionali e affettive, passando attraverso il ruolo euristico svolto dall’analogia e dall’invenzione, fino alla formalizzazione simbolica tipica delle scienze. Che è, tuttavia, sempre concepita in relazione concreta con la natura, grazie alla mediazione imprescindibile degli oggetti tecnici, il cui rapporto diretto con vincoli di tipo fisico e chimico impedisce la riduzione del sapere a mero riflesso della cultura dominante ovvero, diremmo noi, il rovesciamento della scienza in ideologia.

Proprio questa lettura in chiave «ontogenetica» dell’ontologia e dell’epistemologia permette a Simondon, da un lato di rompere definitivamente con la fenomenologia francese dall’interno, lungo una strada che Maurice Merleau-Ponty, uno dei suoi maestri, aveva avuto appena il tempo di aprire. Dall’altro, gli consente di sfondare la prospettiva sincronica e deterministica che caratterizza parte dello strutturalismo a lui coevo. Come in tutta la sua opera, Simondon prosegue piuttosto l’interrogazione di Georges Canguilhem sull’intreccio tra normatività biologica, tecnica e sociale, radicando la sua analisi nella tradizione sociologica francese ed estendendola al campo delle scienze dure, grazie a una cruciale debito nei confronti di Gaston Bachelard.

Un sapere in corso d’individuazione

La politicità del pensiero di Simondon potrebbe sembrare scontata al lettore italiano. Se il merito di Paolo Virno è stato di comprendere per primo l’importanza dei requisiti specie-specifici della natura umana («pre-individuali») per elaborare una riflessione politica che tenga indissolubilmente insieme biologia e storia, la nozione di «transindividuale» marca sia la strada lungo la quale Vittorio Morfino ha proseguito l’intuizione di Balibar, sia quell’intreccio di tecnica e individuazione che è stato il cuore pulsante del pensiero di Bernard Stiegler. Questo ampio spettro di interpretazioni, cui ha fatto da contrappunto la ricostruzione storica e concettuale di Giovanni Carrozzini (in Gilbert Simondon. Del modo di esistenza di un individuo, Castelvecchi 2021), rende finalmente possibile un bilancio complessivo della prestazione filosofico-politica del filosofo francese.

Sebbene Simondon non sia stato un filosofo politico in senso classico, il suo lavoro invita allo studio della tecnica e delle sue implicazioni politiche da una prospettiva che non è né nostalgica di una presunta naturalità perduta della comunità umana immersa nei rapporti di lavoro precapitalistici, né devota a una mistica del progresso sociale guidato dall’infrastruttura tecnologica senza bisogno di mediazioni politiche.

La sua filosofia non rinuncia affatto all’idea di un contributo politico da parte del sapere tecnico e scientifico, che qualifica come «progressivo e continuo» in contrapposizione alle culture che, «dopo ciascun ciclo… si disorganizzano, cambiano di struttura e rinascono secondo nuovi principi». Ma, appunto, non è tanto la scienza, la cui «terza tappa è quella della positività», il sapere di cui egli parla, quanto un conoscere teorico e operativo che può continuare solo a condizione di non rimanere mai lo stesso, di non esprimersi in una specifica cultura proprio perché è radicato nella realtà dei processi e delle relazioni da cui tutte le civiltà emergono. Poiché questo sapere è «in corso di individuazione», esso richiede, sempre, una mediazione politica: ovvero una formulazione dei problemi e una decisione sulle soluzioni da adottare che sarà per definizione rischiosa e collettiva.

È solo in questa prospettiva che la filosofia di Simondon può supportare una critica radicale della modernità capitalistica che punti all’invenzione di un’alternativa, o meglio, di uno spettro di alternative – mai solamente immaginarie e sempre radicate nel rigore della ricerca – in cui si incrocino tecnica, scienza e politica.

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