Quando in Giappone era impensabile l’arrivo di un inverno demografico, il governo applicava un modello violento per frenare il boom delle nascite registrato dopo la Seconda guerra mondiale: sterilizzazioni forzate di migliaia di persone portatrici di handicap fisici o mentali. Ma a distanza di decenni, quel modello viene ora giudicato incostituzionale. È quanto ha stabilito lo scorso 3 luglio la Corte Suprema del Giappone sulla Legge di protezione eugenetica, che in quasi mezzo secolo ha portato alla sterilizzazione di 25mila persone con disabilità intellettive e fisiche, malattie ereditarie o deformità fisiche. Almeno 16mila di queste procedure sono state eseguite senza consenso anche su minori.

LA NORMA, entrata in vigore nel 1948 e abrogata nel 1996, aveva lo scopo di impedire la nascita di una «prole inferiore» che non poteva avere spazio nel Giappone del futuro. E così poteva anche venir meno il consenso della persona che doveva esser sottoposta al trattamento. La decisione ultima spettava a una commissione d’esame presso il governo della Prefettura, che ha persino tratto in inganno le vittime: molte sono state indotte a credere che si sarebbero sottoposte a interventi chirurgici di routine, come la rimozione dell’appendice.

NEL TRACCIARE una linea tra chi dovesse sottoporsi all’intervento e chi invece dovesse portare avanti una popolazione di giapponesi «sani», l’esecutivo nipponico ha negli anni inflitto danni a migliaia di persone e alle loro famiglie. Danni che ora dovrà risarcire. Nella storica sentenza, l’alta Corte ordina al governo di ricompensare le vittime, dopo aver stabilito che il termine di prescrizione di 20 anni non è applicabile ai casi come questo. Il codice civile giapponese impedisce di chiedere il risarcimento dei danni una volta trascorsi due decenni dall’illecito.

Ora il governo dovrà risarcire 11 querelanti coinvolti in cinque diversi procedimenti giudiziari, arrivati fino alla Corte Suprema dopo vari ricorsi. In quattro di questi casi, l’alta Corte ha riconosciuto una compensazione di 16,5 milioni di yen (circa 102.000 dollari) ai querelanti e 2,2 milioni di yen (13.000 dollari) ai rispettivi coniugi. Per l’ultimo caso, invece, non è stato ancora fissata una somma riparatoria, che verrà stabilita da un tribunale di grado inferiore. Il pronunciamento della Corte apre ora la strada a nuove richieste di risarcimento da parte delle vittime, dopo anni di battaglie legali.

In passato il governo di Tokyo aveva già riconosciuto le sue responsabilità, spinto dall’azione legale avviata nel 2018 da una donna 60enne per una procedura a cui si era sottoposta a 15 anni, a causa di una disabilità intellettiva. L’anno successivo, l’allora premier Abe Shinzo si è scusato «con tutto il cuore» con le molte vittime, approvando una legge della durata quinquennale che prevedeva un risarcimento forfettario di 3,2 milioni di yen (circa 20.000 dollari) per persona costretta alla sterilizzazione. Ma la misura non ha soddisfatto i sopravvissuti che hanno innescato una battaglia legale contro il governo per chiedere una compensazione commisurata alle loro sofferenze.

PER CONTRAPPASSO, oggi il Giappone fa i conti con il tasso di natalità più basso al mondo e la crisi dei matrimoni. Il governo cerca di correre ai ripari per frenare un fenomeno che potrebbe portare la popolazione nazionale dagli attuali 124 milioni di abitanti ai 63 milioni entro il 2100. Attualmente circa un terzo della popolazione ha oltre 65 anni e l’età media è di 48 anni, la più alta al mondo per uno Stato. Le ripercussioni sul sistema lavorativo, produttivo e fiscale della seconda economia dell’Asia sono evidenti. Ora il premier Fumio Kishida, che affonda nei sondaggi, è chiamato a rispondere a una sfida difficile da vincere. In autunno il leader conservatore si gioca la guida del partito Liberal Democratico. E da questa partita dipende il suo futuro come leader del paese.