L’immagine vulgata di Georges Perec (1936-1982) lo assimila a uno scrittore di così acceso sperimentalismo da sembrare perennemente in fuga dal libro precedente, un jongleur di così fungibile versatilità da guadagnargli in anticipo la fama o la taccia di postmoderno: tanto freddo e fenomenologico, il libro d’esordio Les choses (’65) poteva sembrare l’antitesi del mega-lipogramma intitolato La disparition (’69), per tacere del romanzo cui tuttora deve la sua fama (La Vie mode d’emploi), un cubo di Rubik o una enciclopedia dei possibili narrativi che ne ha fatto il portabandiera dell’OuLiPo, il Laboratorio di Letteratura Potenziale (suo riconosciuto patronus Raymond Queneau) che è l’esito estremo in Francia delle nuove avanguardie.

Che a lungo questa risultasse la fisionomia di Perec è riprova una durissima scheda di lettura di Franco Fortini (ora in Pareri editoriali per Einaudi, a cura di R. Deiana e F. Masci, Einaudi 2023) dove nel marzo del ’79, a proposito de La Vie uscito in Francia appena quattro mesi prima, ne consiglia paradossalmente la pubblicazione ritenendolo facilmente smerciabile per la stessa esecrabilità del manufatto: «È straordinario nel senso di un ordinario sistematico ed è vuoto nel senso di un pieno assoluto e irrespirabile. (…) Divertente e spiritoso nei particolari. Iettatorio come un quadro di Magritte; noiosissimo nell’insieme. Perfettamente kitsch come il suo titolo». In un simile virtuosismo, in quello che anche chiama un contributo alla costruzione di sottoletteratura, Fortini (che pure è al corrente del fatto che un suo maestro, Elio Vittorini, ha patrocinato da Mondadori Le cose) legge il sogno supremo dell’infantilismo, l’essere o sembrare più intelligenti del compagno di banco.

La quantità di testi usciti in Francia e poi, più o meno regolarmente, in Italia dopo la morte precoce dello scrittore, una minutaglia di tranches dai titoli spesso intriganti (e basterebbe citare Je suis né, ’90, L’Infra-ordinaire, ’96 e Jeux interessants, ’99), parve a lungo confermare il sospetto se non la liquidazione di Fortini, tant’è che ancora nel ’93 un ricco fascicolo di «Riga» (n. 4, Perec, a cura di Andrea Borsari) si proponeva di scampare l’immagine dello scrittore dallo stereotipo della pura sperimentazione. Pochi allora avevano presente, per quello che in effetti comportava, il libro di Perec più alto e invece passato quasi inosservato, W ou le souvenir d’enfance (’75) ovvero ritenuto una favola oscuramente distopica, solo una fra le sue inesauribili trouvailles. La proposta organica della saggistica ha permesso di intenderlo meglio spiegando Perec con Perec, a cominciare dai testi di Penser/Classer (’85) proposto in Italia nel 1989 nella classica versione di Sergio Pautasso che ora torna come Pensare/Classificare (Quodlibet «Compagnia Extra», pp. 161, € 15,00).

Sono tredici testi originariamente usciti, vivo l’autore, in riviste o plaquettes fra il ’76 e l’82 (dunque nel periodo di massima attività) e hanno titoli in certi casi astrusi (come Brevi note sull’arte e il modo di sistemare i propri libri, 81 schede-cucina a uso dei principianti, Considerazioni sugli occhiali) ma tutti quanti riferibili a quella versatilità che nello scritto inaugurale, Note su ciò che scrivo, Perec legge nei quattro ambiti compresenti nella propria letteratura, comunque una letteratura di ricerca per la quale, aggiunge, «non saprei spiegare il perché ma soltanto il come»: la sociologia (vedi Les choses), l’autobiografia (egli fa l’esempio di W), il ludus linguistico-stilistico (cioè l’attivismo oulipiano preso in blocco) e la fiction, naturalmente culminante in La Vie mode d’emploi.

Centrale in ogni senso, vero baricentro di tutto il suo percorso d’autore, è I luoghi di una astuzia, un testo del 1977 dove dà conto di una esperienza psicoanalitica protrattasi fra il ’71 e il ’75. Non vi compaiono nomi o riferimenti puntuali se non l’ubicazione dell’analista, vicino a casa dello scrittore sulla Riva Sinistra, fra il Jardin des Plantes e la Grande Moschea. Vi si percepisce tuttavia un dato di progressiva acclimatazione e di ritualità che l’analista scandisce con la sua presenza muta, attenta, persino implacabile. (Oggi sappiamo che l’analista era anche uno scrittore e si chiamava Jean-Bertrand Pontalis, il quale avrebbe dedicato al suo vecchio paziente alcune pagine di penetrante finezza).

Per parte sua, il Perec in analisi è un individuo verboso, pignolo, un maniacale narratore dei propri sogni, la cui eccessiva nitidezza dà però subito l’idea che essi esistano per entrare in un libro prima che nel set analitico. L’analisi sembra girare mutamente a vuoto fino al giorno in cui, al colmo di una sofferenza senza requie né nome, il paziente Perec si trova a parlare o anzi a «dire» ritornando sui suoi passi e rientrando nel percorso di cui pareva aver perduto ogni traccia: «È l’inquadramento spaziale e temporale di un discorso senza fine che, sul filo delle sedute, dei mesi, degli anni, tentavo di catturare, nel quale andavo cercando di riconoscermi e darmi un nome». Ecco, riconoscersi e darsi un nome per lui non vuol dire altro che fare i conti con il proprio passato di orfano, di figlio di due ebrei polacchi immigrati in Francia e periti nel corso della guerra: «Quel giorno l’analista intese ciò che avevo da dirgli, ciò che aveva ascoltato durante quattro anni senza intenderlo, per la semplice ragione che non glielo dicevo, che non me lo dicevo».

Come risulta dal lavoro di non pochi biografi (da ultimo Claude Burgelin con l’ottimo Album Georges Perec, Bibliothèque de la Pléiade, 2017) suo padre Icek Perec morì soldato nel ’40 durante la cosiddetta drôle de guerre mentre sua madre Cyrla Szulewicz finì annientata in Auschwitz come gran parte della propria famiglia. Con i suoi genitori Perec era cresciuto nel popolare quartiere di Menilmontant, al 24 della rue Vilin, e sua madre l’aveva salutata un’ultima volta nel ’42 alla Gare de Lyon prima di essere mandato nel Vercors per nascondersi in casa dei cugini e degli zii Bienenfeld che di fatto lo adottarono. (E vicino ai Bienenfeld le ceneri dello scrittore oggi riposano nel colombario del Père-Lachaise).

In realtà, a leggere in retrospettiva, di questa terrificante sottrazione e di nient’altro dice tutta la letteratura di Perec, ovviamente a partire dal suo libro più essenziale e a lungo ritenuto oscuro e inconcludente, W o la tragedia dell’infanzia (disponibile in italiano a cura di Andrea Canobbio e nella rinnovata versione di Maurizia Balmelli, Einaudi «Letture», 2018). Lì, come non mai, lo scrittore riesce a essere contemporaneamente l’archivista di sé e il romanziere di sé, dunque a trattare una materia incandescente, che da sempre gli urge sottotraccia, portandola però a una distanza di sicurezza, rendendola in qualche modo obiettiva o anonima e proprio perciò più universale.

Il suo metodo, se così si può definire, richiama le procedure artistiche di Christian Boltansky, quel suo modo di mostrare questo per richiamare l’altro, di utilizzare un dato parziale per alludere, inesorabilmente, a una totalità percettiva. D’altronde la scrittura era stata da subito un ancoraggio e insieme un nascondimento, una ferita aperta e pulsante ma anche la sua necessaria cicatrizzazione, dentro una rischiosa dialettica di pieno e di vuoto: ma disse Pontalis che, proprio grazie alla scrittura, Georges Perec un giorno era «nato a sé stesso».