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Georges Duhamel, strategie dell’insignificanza tra i miasmi di Les Halles

Georges Duhamel, strategie dell’insignificanza tra i miasmi di Les HallesGeorges Duhamel

Scrittori francesi Un uomo spietatamente autoanalitico riserva la sua «Confessione di mezzanotte» a ascoltatori disinteressati, in luoghi modesti o sordidi, incapace di accettare il sentimento dell’assurdo: da Ago edizioni

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 7 gennaio 2024

Un impiegato di infimo livello è al cospetto del grande capo, che, scorbutico, gli chiede di decifrare la grafia illeggibile di un documento: si avvicina, girando dietro la scrivania, e nota l’orecchio sinistro del superiore, un orecchio che non ha nulla di straordinario, ma che lo attrae irresistibilmente con la sua consistenza carnosa. Non riesce a distogliere lo sguardo, fissa con attenzione quasi dolorosa quell’appendice che sente vicina e al tempo stesso profondamente estranea, e che solo ad altri – l’amante del capo, suo figlio – concede il privilegio di lasciarsi sfiorare con naturalezza. Si fa strada nella mente dell’impiegato il desiderio di toccare, di dimostrare a se stesso «che quell’orecchio non era una cosa proibita, inesistente, immaginaria, che era solo carne umana, proprio come il mio orecchio». E allora alza piano il braccio e il suo dito indice si posa delicatamente sul lobo tentatore.

Hanno inizio così la Vita e le avventure di Salavin di Georges Duhamel, di cui Confessione di mezzanotte (traduzione di Caterina Miracle Bragantini, Ago Edizioni, pp. 159, € 16,00) costituisce il primo volume. Pubblicato nel 1920, sarà seguito da altri quattro romanzi, l’ultimo uscito nel 1932, a formare un roman-fleuve, genere assai praticato nella letteratura francese dei due decenni che precedono la seconda guerra mondiale. Roger Martin du Gard, Jules Romains e lo stesso Duhamel con la più nota Chronique des Pasquier inventano in quegli anni grandi cicli romanzeschi ispirati al modello balzachiano del ritorno dei personaggi, dove, nei meandri del «fiume» narrativo l’analisi psicologica dei caratteri incontra il grande affresco storico e sociale.

Il primo ciclo creato da Duhamel è invece più centrato sul suo protagonista, Salavin, che incarna la condizione umana dell’eroe deriso ma simpatico: debole, spietatamente autoanalitico, confida al prossimo le miserie della sua vita piccolo borghese, e scivolerà verso una lenta autodistruzione nei romanzi successivi. La sua confessione sgorga all’improvviso, davanti a uno sconosciuto incontrato al bar: «Non so più cosa fare. Non so più cosa diventare». Camus si servirà dello stesso congegno narrativo nella Caduta: non a caso, perché Duhamel, oggi quasi sconosciuto, godeva al tempo di un certo prestigio.

Quell’atto privo di senso con cui si apre la Confessione di mezzanotte, il lieve tocco sull’orecchio, provoca una reazione sproporzionata del capo, che prima estrae una pistola, poi licenzia in tronco il sottoposto. «Ecco un uomo, un uomo come me; tra noi due c’è una barriera tale che non posso nemmeno accostare la punta del mio dito sulla sua pelle senza assumere le sembianze di un criminale. Allora non sono libero?». Nasce così, in una forma grottesca, quel sentimento dell’assurdo che nutrirà, per esempio, La nausea di Sartre e che fa di Duhamel uno dei precursori dell’esistenzialismo. Lo stesso titolo inizialmente pensato da Sartre per il suo romanzo Avventure straordinarie di Roquentin (con sottotitolo: non esistono avventure) era una chiara eco di quello di Duhamel. E l’atto idiota nonché fatale con cui si apre il romanzo si riprodurrà in tanti altri gesti inconsulti della letteratura successiva. Coloro che li compiono sono, come Salavin, degli eroi mediocri: il personaggio creato da Duhamel è l’incarnazione del raté, velleitario che si trascina per le vie di Parigi alla ricerca di un nuovo impiego, senza in realtà mai cercarlo davvero. Le sue peregrinazioni parigine ci parlano di quartieri un tempo popolari, dalla rue du Pot de fer alla rue des Halles con l’«immondo odore di cavoli marci».

Ambienti modesti e talvolta sordidi dove si muove un personaggio insignificante, «fatto di niente», la cui vita è intessuta di «inezie senza importanza». Mentre il titolo generale evoca un mondo romanzesco fatto di rebondissements e colpi di scena, le gesta di Salavin sono essenzialmente mentali: «tutte le mie avventure sono accadute dentro di me». Le peripezie raccontate dal protagonista di fatto consistono nel conflitto sempre più acuto tra la sua coscienza e un inconscio che, affiorando, lo fa precipitare nella vergogna e nei sensi di colpa: le fantasticherie su una ipotetica morte della madre, personaggio affettuosamente protettivo ma castrante, gli consentono di immaginare come ricostruire liberamente la sua vita, per esempio. Ma questi vagabondaggi della mente vengono subiti da Salavin come un’aggressione cui non riesce a reagire: «Ero visitato, attraversato, brutalizzato, violato da innumerevoli pensieri (…) si pensava in me, attraverso me, verso e contro di me».

Animato da un desiderio di purezza, che non sa come realizzare, tenterà nei romanzi successivi del ciclo una serie di strategie, tutte fallite, per ricostruire la sua vita: ma né l’amore coniugale, né l’amicizia, né l’ideale religioso o la solidarietà con la causa sociale gli permetteranno di sfuggire alla sua mediocrità. Di fatto, la tragedia di Salavin sta nella sua impossibilità di accettarsi; e l’assurdo, ancora tutto negativo, incarnato dal personaggio di Duhamel, consiste nella scoperta dell’insignificanza di se stessi e di qualunque azione si voglia intraprendere, dunque nella condanna a una disperante ordinarietà.

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