Frutto di oltre vent’anni di insegnamento presso il corso di scrittura creativa dell’Università di Syracuse, negli Stati Uniti, l’ultimo lungo libro di George Saunders, Un bagno nello stagno sotto la pioggia (traduzione di Cristiana Mennella, Feltrinelli, pp. 499, € 24,00) fa un po’ il punto non soltanto sul percorso accademico del suo autore, ma anche su quell’artigianato, la scrittura di short stories, di cui l’autore americano è un maestro riconosciuto anche fuori dalle aule.

E lo fa in un modo particolare, ossia riportando per intero sette racconti prelevati dalla grande stagione della letteratura russa dell’Ottocento, e commentandoli pezzo per pezzo.

Ci sono tre testi di Chechov, due di Tolstoj, uno a testa per Gogol’ e Turgenev: autori molto diversi l’uno dall’altro, scelti perché – e qui riporto alcuni concetti di Saunders – nella letteratura russa dell’Ottocento prendono vita tutti i principî fondamentali della forma-racconto e, dunque, scegliere i russi significa mettersi a lavorare sulla quintessenza dell’arte di raccontare storie; ma non solo: dice Saunders che quelli proposti sono «sette modelli in scala del mondo», sette splendide miniature della vita umana sulla Terra, costruite per porre quesiti fondamentali sulla nostra presenza quaggiù; ma soprattutto, sono testi belli, leggibili, che scatenano la curiosità di chi legge perché gli fa sembrare che quello che capita a queste Olen’ka e a questi Vasilij, ai Kovalëv e ai Semën, benché sia lontano nel tempo e nello spazio, lo riguardi da vicino.

Creare un mondo

A un certo punto, Saunders si ricorda di un vecchio esempio, breve ed efficacissimo, che il grande E. M. Forster utilizzò per spiegare, nel ciclo di conferenze confluito poi in Aspetti del romanzo, la differenza tra un racconto e… niente.

L’esempio è questo: «Il re morì, poi morì la regina». Si tratta di un avvenimento, certo, anzi di due, ma tra loro manca del tutto un collegamento, un nesso di causa/effetto; siamo di fronte a delle informazioni nude, che non significano nulla perché sono scollegate tra loro e non creano un mondo: vengono insomma riportati dei fatti, ma non c’è una storia da raccontare.

Sentite invece come, aggiungendo semplicemente due vocaboli, si può trasformare queste notizie in una storia, ossia in qualcosa di più grande: «Il re morì, poi la regina morì di dolore». Che cosa è successo? È successo che, adesso, le due morti sono in relazione, c’è qualcosa che le lega; e soprattutto è successo che, senza dirlo, chi ha aggiunto quelle due paroline ha creato un mondo, benché lo abbia lasciato sottinteso, e in questo mondo il re e la regina si amavano così tanto che la scomparsa dell’uno ha portato l’altra a lasciarsi morire.

C’è tutto un romanzo possibile, in questo pugno di parole.

Un bagno nello stagno sotto la pioggia è un lungo, proficuo viaggio dentro i trucchi di quel mestiere che porta certi esseri umani a scrivere storie, inventandosi tecniche che creino aspettative in chi legge e costruiscano relazioni tra fatti a volte molto lontani tra loro, scovando quei percorsi che portano ad aggiungere espressioni come di dolore al resoconto altrimenti sterile dei fatti umani.

Saunders comincia da Chechov (e a Chechov finisce sempre per tornare: se cercate un primus inter pares tra gli autori proposti, è senza dubbio lui), e usa lo splendido «Viaggio sul carro» per insegnare un principio cardine della narrativa: la creazione di aspettative nel lettore.

Proponendo una lettura a tappe del racconto, Saunders segue la vicenda piccola e malinconica di Mar’ja, la cui vita non ha nulla di speciale, e comincia a porre domande al testo rivelando un meccanismo fondamentale del raccontare storie: ogni descrizione, ogni gesto, ogni azione che un personaggio compie fa sorgere in chi legge delle aspettative (Mar’ja e Chanov si sposeranno? Perché Semën si ostina a voler guadare il fiume?) sulla cui base l’autore sviluppa la storia: se, nella notte, in una casa abbandonata nel bosco, un personaggio percorre da solo un corridoio buio, il lettore si aspetta che venga aggredito da un mostro, o da uno psicopatico – e sta all’autore decidere se confermare o meno questo orizzonte d’attesa o far irrompere nel testo qualcosa di completamente diverso.

Saunders usa Chechov anche per esporre un altro principio: ogni elemento che introduciamo in un racconto deve avere una funzione narrativa, deve essere – uso apposta una brutta parola – utile.

Così, le 12 pagine (su 20 totali) di descrizione dei caratteri che aprono «I cantori» di Turgenev possono sembrare, ai lettori di oggi, un’inutile pesantezza, ed effettivamente il testo è faticoso: ma sono pagine utili, perché ciò che Turgenev mette in scena è una «giuria popolare» che, in una taverna, ascolta e giudica una gara di canto.

E il cuore del racconto è, oltre la gara in sé, proprio questo giudizio, e le reazioni che i giurati hanno al cospetto delle esibizioni: conoscere a fondo i loro caratteri, dunque, serve a farci capire i motivi delle loro scelte e i modi, a volte bizzarri, in cui persone descritte per lo più come incolte e sperdute entrano in contatto con l’arte.

Attraverso Tolstoj (soprattutto nel caso di «Il padrone e il lavorante») Saunders lavora invece sul crescendo della storia, e ci mostra come costruire personaggi che evolvano in modo verosimile e potente. E così via, in un racconto critico che è un’esibizione pubblica degli «attrezzi del mestiere» dello scrittore e, insieme, un canto d’amore verso i grandi padri della letteratura.

Con una nota stonata: le pagine su Gogol’. Saunders sceglie «Il naso», capolavoro dell’assurdo e prodigio di stile e di suoni, ma ammette, non conoscendo il russo, di non potervi entrare a fondo. Questo vale, in realtà, per tutti e sette i racconti presentati, ma la questione Gogol’ è decisamente più spinosa, perché la lingua, qui, è il basso continuo su cui è costruita la storia.

Dunque la lettura del «Naso» nasce zoppa, ma a ben vedere non è solo la questione linguistica a fare problema: Saunders sembra vagamente a disagio con l’assurdo, non riesce a entrare nel testo con la stessa confidenza con cui ha guardato un Chechov o un Tolstoj, e dunque gli gira attorno, lo osserva da lontano e lo riassume, ma fatica a chiarire i motivi profondi per cui ha scelto di parlarne. Il libro, e la didattica che vi è racchiusa, tornano perfettamente in asse non appena, conclusa la parentesi gogoliana, Saunders si rimette su Chechov.

Una antica visita

Si esce dalla lettura di Un bagno nello stagno sotto la pioggia incantati per la lunga frequentazione con la bellezza di questi racconti e, allo stesso tempo, consapevoli che la scrittura sia una pratica che, oltre al talento e alla capacità di osservare il mondo, richiede anche la padronanza di certe tecniche.

Il titolo dell’opera fa riferimento a un famoso incontro tra Chechov e Tolstoj a Jasnaja Poljana: Chechov, che andava per la prima volta a casa del Maestro, lo trovò, nudo, che faceva il bagno nello stagno; era un uomo riservato e dai modi molto urbani, ma quello era Tolstoj: non ci pensò due volte, si spogliò e si immerse con lui.