Editoriale

Gentiloni tace sulla strage nello Yemen

Gentiloni tace sulla strage nello YemenBambini in una scuola distrutta dalle bombe a sa'ada in Yemen – Ap

Mentre il presidente del consiglio Paolo Gentiloni lasciava Riyadh e il petromonarca Salman per raggiungere Emirati arabi e Qatar, ieri un raid aereo della coalizione a guida saudita centrava un […]

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 2 novembre 2017

Mentre il presidente del consiglio Paolo Gentiloni lasciava Riyadh e il petromonarca Salman per raggiungere Emirati arabi e Qatar, ieri un raid aereo della coalizione a guida saudita centrava un mercato a Saa’da, nel nord Yemen, uccidendo 29 persone tra cui molti bambini.

L’occasione per una presa di distanza dell’Italia dalla guerra che lì si consuma nell’indifferenza generale e che alimenta il conflitto tra sunniti e sciiti, e invece temiamo un fragoroso silenzio. E stavolta non è una speculazione.

Giacché, pochi giorni fa, prima della partenza di Gentiloni, Amnesty International Italia, nelle vesti del direttore generale Gianni Rufini, ha scritto al presidente del consiglio un dettagliata lettera-dossier perché cogliesse l’occasione del viaggio in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar «per sollevare il tema delle violazioni dei diritti umani nei tre paesi del Golfo e, più in generale, di promuovere il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel contesto delle relazioni diplomatiche bilaterali tra l’Italia e i tre paesi». R

icordando come le autorità dell’Arabia Saudita continuino a limitare duramente i diritti alla libertà d’espressione, associazione e riunione, «arrestando e incarcerando, sulla base di accuse dalla formulazione vaga, difensori dei diritti umani, persone che esprimono opinioni critiche e attivisti per i diritti delle minoranze».

Fra questi, Raif Badawi, condannato a 10 anni di carcere e a 1000 frustate – 50 delle quali già ricevute in pubblico – per aver dato vita a un forum online di dibattito su temi politici e religiosi». Sottolineando come la tortura resti «prassi comune, soprattutto durante gli interrogatori», perché i tribunali continuano ad accettare “confessioni” ottenute tramite tortura per condannare gli imputati in procedimenti giudiziari iniqui, con il ricorso alla pena di morte anche per reati non violenti e nei confronti di minorenni.

L’Arabia Saudita è tra i primi cinque paesi al mondo per numero di esecuzioni.

Dall’inizio del 2017 sono state eseguite 100 condanne a morte. E non dimenticando come le forze della coalizione a guida saudita intervenute nello Yemen nel marzo 2015 hanno commesso gravi violazioni del diritto internazionale, compresi crimini di guerra. E denunciando – ecco il punto – che, nonostante questo, l’Italia abbia scelto di continuare a fornire alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita sistemi militari e munizionamento che alimentano il conflitto nonostante diversi rapporti attendibili dimostrino le gravi e reiterate violazioni delle convenzioni internazionali su diritti umani e diritto umanitario.

Negli Emirati Arabi Uniti le autorità continuano a imporre arbitrariamente restrizioni al diritto alla libertà d’espressione e d’associazione, detenendo e perseguendo ai sensi di leggi penali sulla diffamazione e antiterrorismo persone critiche verso il governo, oppositori e cittadini stranieri. Sparizioni forzate, processi iniqui e tortura e altri maltrattamenti di detenuti sono prassi comune. Decine di persone condannate in seguito a processi iniqui negli anni precedenti sono rinchiuse in carcere, tra queste ci sono molti prigionieri di coscienza.

Tra questi Ahmed Mansoor, difensore dei diritti umani e noto blogger, già più volte intimidito, vessato e incarcerato per mano delle autorità, è attualmente in condizione di sparizione forzata dal 20 marzo 2017, a rischio di tortura e altri maltrattamenti. E che in Qatar continuano ad essere imposte indebite limitazioni alla libertà d’espressione, associazione e riunione pacifica, non è ammessa l’esistenza di partiti politici indipendenti, e soltanto i cittadini del Qatar hanno il permesso di organizzarsi in associazioni di lavoratori, a patto che queste soddisfino rigidi criteri stabiliti dalle autorità. Non sono ammessi e vengono sistematicamente dispersi i raduni pubblici non autorizzati e sono in vigore leggi che criminalizzano espressioni ritenute offensive verso l’emiro. Inoltre, ribadisce Amnesty «la discriminazione contro le donne è radicata nella legge e nella prassi. I lavoratori migranti subiscono gravi forme di sfruttamento e abusi.

Pensate voi che Gentiloni, accompagnato da Alessandro Profumo a.d. di Leonardo, Claudio De Scalzi dell’Eni e Giuseppe Bono di Finmeccanica, abbia sentito il dovere di rispondere ad Amnesty? No, non l’ha fatto.

In realtà la “risposta” l’ha data in modo ufficiale e diplomatico dopo il vertice con le petro-autorità saudite: «I rapporti con l’Arabia saudita sono importanti per i nostri interessi nazionali e per la stabilità del Mediterraneo e della Libia, ho apprezzato – ha dichiarato Gentiloni – la moderazione che ha avuto sulla vicenda libica. Guardiamo con interesse all’incontro organizzato tra le opposizioni siriane per un contesto nuovo e ci auguriamo che i tentativi in corso dall’amministrazione Usa e dal Kuwait per evitare tensioni nel Golfo funzionino».

In questo viaggio d’affari non poteva mancare anche qui il segno di una evidente subalternità, con un occhio alla Libia dove la monarchia di Riyadh appoggia il generale Haftar contro il “nostro” Serraj; alla cosiddetta stabilizzazione della Siria dove l’Arabia saudita, dopo aver contribuito a ridurre il Paese in macerie, ha appena smesso di sostenere il jihadismo dell’Isis e ora corre per accaparrarsi una ricca fetta della ricostruzione; e ringraziando i “tentativi” di Trump che in realtà ha portato in dono ai Saud ben 110 miliardi di dollari in armi.

Per un presidenziale viaggio d’affari, con l’occhio alla inevitabile “crescita” del made in Italy, questo pesante teatro di silenzi e finzioni può bastare.

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