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Gennargentu, quel parco nazionale mai nato per colpa dei cacciatori

Gennargentu, quel parco nazionale mai nato per colpa dei cacciatori

In Sardegna il Parco nazionale del Gennargentu, che doveva essere istituito nel 1994, non è mai nato. I cacciatori sono scesi nelle piazze a protestare, hanno occupato le strade di […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 maggio 2019

In Sardegna il Parco nazionale del Gennargentu, che doveva essere istituito nel 1994, non è mai nato. I cacciatori sono scesi nelle piazze a protestare, hanno occupato le strade di collegamento col Parco, non hanno mai mollato la lotta finché il Ministero dell’Ambiente non ha desistito. Se il caso del Gennargentu è un’eccezione, tutti i Parchi nazionali e regionali hanno dovuto fare i conti con la potente lobby dei cacciatori. Paradossalmente i primi parchi nazionali italiani istituiti nel 1922 – Gran Paradiso e Abbruzzi – vengono ubicati in quelle che erano riserve di caccia reale, riservate alla corte e alla nobiltà di alto rango, dove il popolo dei cacciatori – per lo più contadini – non vi accedeva. Viceversa, quando con la legge 394 del ’91 furono istituiti la gran parte degli attuali parchi nazionali e regionali, la ribellione e le lotte contro parchi naturali e aree protette attraversò il nostro paese da Nord a Sud, senza soluzione di continuità. Teniamo presente che nel 1979 si era arrivati ad avere 1,9 milioni di cacciatori ufficiali, quelli con la licenza di caccia, più un numero che si stima intorno a trecentomila illegali. Un vero e proprio esercito che col tempo è diminuito fino a stabilizzarsi intorno alle 700 mila unità negli ultimi anni e, soprattutto, ad uscire di scena dall’agone politico. Cosa ha prodotto questo cambiamento? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro che ci aiuta a inquadrare storicamente il fenomeno.

La storia della caccia, infatti, è uno straordinario indicatore sociale e culturale, che ci mostra i cambiamenti intervenuti nel corso del tempo. Riservata nel passato alla Corte e ai nobili di alto rango, con la rivoluzione francese fu decretata la liberalizzazione della caccia, dando al popolo libertà di cacciare su tutto il territorio nazionale, comprese le riserve di caccia. In qualche decennio la deregulation della caccia produsse un eccessivo prelevamento della fauna con il rischio di scomparsa di diverse specie animali. Fu così che nacquero le prime associazioni dei cacciatori che funzionavano come le vecchie Corporazioni di arti e mestieri: dandosi delle regole ferree e controllando i propri associati stabilirono tempi e modalità della stagione venatoria con l’obiettivo prioritario di preservare il patrimonio faunistico.

Per avere un’idea del funzionamento di queste associazioni di cacciatori basti leggersi, ad esempio, lo statuto di quella di Brescia, patria degli artigiani armaioli (oggi industriali): chi cacciava fuori stagione, quando avviene la riproduzione delle diverse specie animali, veniva espulso dall’associazione, condannato a pagare una ammenda e gli poteva essere ritirato anche il permesso di caccia.

In Italia, fu il fascismo che mise fine a questo sistema di autoregolazione, chiudendo le associazioni dei cacciatori e obbligandoli a iscriversi a l’unica associazione nazionale del fascio. Inoltre, il fascismo elevò l’ammontare delle tasse per ottenere la licenza e istituì nuove aree protette fino agli anni ’30 quando si verificò una svolta: la caccia venne esaltata come una grande scuola di massa per creare lo spirito del soldato, la capacità di inseguire e stanare il nemico(la preda) e ucciderlo. E quando l’Italia fu colpita dalle sanzioni nel 1936, la caccia venne ulteriormente esaltata per il suo valore economico: la riduzione dell’import di carne dall’estero. Ma, il più radicale cambiamento si registrò negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso con l’avvento della motorizzazione di massa. La caccia non avveniva più in un territorio vicino e limitato ma il cacciatore poteva con l’auto andare a cacciare dovunque senza più considerare i danni al patrimonio faunistico. Si era rotta la connessione tra cacciatori e territorio di appartenenza con la perdita di un rispetto per il patrimonio faunistico, e non solo, di regole e controllo sociale. Emerse in quegli anni la nuova figura dello «sparatore»: nato e cresciuto in un contesto urbano, senza alcun rapporto con il patrimonio ambientale e l’ecosistema rurale, che praticava la caccia come uno sport e sparacchiava su tutto quello che si muoveva! Era finita per sempre un’epoca, si era reciso per sempre il legame con l’antico spirito della caccia.

Per fortuna, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, la nascita e l’affermarsi della coscienza ambientalista, una maggiore vigilanza da parte delle guardie forestali, l’ampliarsi delle aree protette dalla caccia, ha portato ad una drastica riduzione della figura dello «sparatore» e delle associazioni venatorie che non rappresentano più il principale nemico dei Parchi nazionali e regionali che, purtroppo, devono fare i conti con ben più potenti forze economiche e sociali.

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