«Gaza come un ghetto»: bufera su Masha Gessen
Masha Gessen
Internazionale

«Gaza come un ghetto»: bufera su Masha Gessen

Germania Sospesa la consegna del premio Hannah Arendt: il sistema culturale e i media tedeschi travolgono anche l’intellettuale russo-statunitense, in un paese in cui anche la kefiah è tacciata di "nazismo"
Pubblicato 11 mesi faEdizione del 15 dicembre 2023

«Lo slogan Palestina Libera equivale ad Heil Hitler» mentre «la kefiah è paragonabile a un simbolo nazista». Il primo titolo appartiene a Die Welt, il quotidiano “moderato” di centrodestra di proprietà del Gruppo Bild, proprio ieri inserito da “Open Ai” nell’elenco delle autorevoli fonti di informazione da cui presto attingerà l’intelligenza artificiale. Il secondo, invece, è la sintesi della Süddeutsche Zeitung, la testata progressista di Monaco, storica voce di riferimento del centrosinistra tedesco.

Fin qui lo stato della pubblica informazione che pare aver definitivamente archiviato la critica giornalistica per abbracciare in toto l’integralismo mediatico. Fa il paio con l’altra sintomatica cartina di tornasole della Germania post-7 ottobre rappresentata dalla cultura. Schiacciata dalla stessa ferrea, indiscutibile e sconfinata interpretazione di Israele come ragione di stato che impone di schierarsi senza se e senza ma dalla parte di Tel Aviv, anche se il bombardamento indiscriminato di Gaza viene definito come tale ormai pure dall’amministrazione Biden.

Non importa se ciò costa il paradosso perfettamente sintetizzato nel caso che ha investito Masha Gessen, intellettuale russo-statunitense celebre per le accurate analisi sull’imperialismo di Mosca e sulla destra Usa, finita nella bufera perché ha vinto il premio Hanna Arendt «nonostante» in un suo saggio per il New Yorker avesse paragonato la prigione di Gaza ai ghetti ebraici nell’Europa orientale occupata dal Terzo Reich.

Dichiarazione inammissibile tanto per la Fondazione Heinrich Böll quanto per il Senato di Brema, cui spetta la consegna del premio, al punto che la cerimonia prevista per oggi risulta ufficialmente sospesa.

A mettere la sordina a Gessen (nonostante i suoi chiarimenti sul senso del suo dirompente confronto dopo la pubblicazione del saggio) il divieto sempre meno informale di accostare qualunque azione di Israele a pratiche riferibili al regime nazista. Anche se Gessen, statuto alla mano, incarna appieno i valori del premio culturale istituito nel 1994 per riconoscere il merito di «chi si muove nel solco di Hanna Arendt contribuendo alla formazione del pensiero e dell’azione politica pubblica». Ma il pollice verso contro l’intellettuale, diventata improvvisamente scomoda e inopportuna per tutti, si è politicamente levato pure dai Verdi.

La parola d’ordine generale sembra davvero essere di oscurare Gessen, a cui nessuno ieri aveva chiesto una replica sul presunto scandalo. «Se qualcuno, alla luce della débacle al premio Arendt, immagina che i media mi abbiano subissato di telefonate, si sbaglia. Nessun cronista tedesco mi ha contattato per un commento» rivelava ieri su X l’intellettuale prima dell’aggiornamento serale in cui risulta il rinnovato interesse per il caso.

«Sono state dette molte imprecisioni, e ogni resoconto non ha avuto alcun input o reazione da parte mia» precisa Gessen ribadendo il suo punto di vista nel saggio: «Poniamo l’Olocausto al di fuori della Storia e ci rifiutiamo di imparare da esso». Altro che antisemitismo, dunque.

Nonostante resti immutata la carachter assassination della Faz: «Nessuno tranne Gessen ha visto razzi che volavano dai ghetti ebraici verso la Germania nazista e non si può dire che nei ghetti si stesse diffondendo un’ideologia di annientamento estesa ben oltre una banda di terroristi», taglia corto il quotidiano economico-finanziario di Francoforte.

Infine, il campo istituzionale dove i confini dell’indipendenza sono andati a farsi benedire anche formalmente. Come dimostra l’ultima riunione dei ministri dell’interno dei Land in cui si è deciso, fra le altre misure, la messa fuori legge delle associazioni radicali palestinesi nonché il veto allo slogan «Palestina libera dal fiume fino al mare». Ospite in videocollegamento con i ministri tedeschi spiccava l’ambasciatore israeliano a Berlino, Ron Prosor, diplomatico di provata fede Likud, diventato famoso ben prima del 7 ottobre, dopo che Avi Berg, proprietario del Café Dodo di Berlino, da ebreo, lo aveva messo alla porta del locale accusandolo di promuovere «una politica manipolatoria finalizzata a bollare come antisemita ogni critica a Israele».

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