Gamal Eid: «Troppa repressione, la nostra ong chiude»
Egitto Intervista all'avvocato e attivista, fondatore dell'Arabic Network for Human Rights Information: «Arresti, minacce, pestaggi: è insopportabile. La società egiziana perde un’organizzazione che ha difeso i diritti umani per molti anni. Chiudere la strada a ogni forma di dissenso ha conseguenze spaventose»
Egitto Intervista all'avvocato e attivista, fondatore dell'Arabic Network for Human Rights Information: «Arresti, minacce, pestaggi: è insopportabile. La società egiziana perde un’organizzazione che ha difeso i diritti umani per molti anni. Chiudere la strada a ogni forma di dissenso ha conseguenze spaventose»
Il 10 gennaio scorso Gamal Eid, tra i più noti avvocati e difensori dei diritti umani in Egitto, ha dato voce a un timore che serpeggiava da tempo: Anhri, l’Arabic Network for Human Rights Information, chiude dopo 18 anni di attività. Lascia l’Egitto più solo.
La decisione della rete che ha difeso i diritti umani, la libertà d’espressione e i prigionieri politici dal 2004, diventando la più importante piattaforma della società civile egiziana, l’ha spiegata lo stesso Eid: un livello di repressione tale da rendere l’attività impossibile.
Minacce, arresti, processi, pestaggi e da ultimo l’obbligo ad adeguarsi alla nuova legge sulle ong che di fatto le pone sotto il controllo del governo attraverso la registrazione al ministero della Solidarietà sociale, step burocratici complessi e surreali, centinaia di documenti da presentare e requisiti impossibili da rispettare. Il tutto sottoposto alla decisione insindacabile del ministero, rendendo di fatto la registrazione una concessione politica.
A ottobre scorso, il ministero ha fatto sapere ufficiosamente ad Anhri che non sarebbero stati registrati a meno di cambiare il nome e rinunciare alle attività di difesa della libertà di espressione e dei prigionieri politici. Ne abbiamo parlato con Gamal Eid, su cui pesa un divieto di espatrio, il congelamento dei beni e un’inchiesta per finanziamenti illeciti.
L’attività di Anhri ha quasi vent’anni di vita. Nella sua dichiarazione, spiega la decisione di chiudere con l’eccessiva repressione subita.
La repressione è insopportabile e quel che è peggio è che prende di mira i miei colleghi e la mia famiglia a causa delle mie prese di posizione. Il numero dei membri di Anhri minacciati per farli diventare informatori è enorme. La procura si fa scudo dietro gli ufficiali di polizia e dà loro luce verde e impunità. La magistratura, come vediamo, porta avanti processi ingiusti e fuori dalle regole e assegna sentenze, su casi di opinione appositamente fabbricati, molto più severe di quelle emesse per omicidio.
Quali saranno le conseguenze della chiusura? Anhri è la più importante rete di difesa dei diritti umani in Egitto.
È semplice: il regime di polizia ne sarà felice, mentre la società egiziana perderà un’organizzazione che ha difeso la libertà di espressione, lo Stato di diritto e i diritti umani per molti anni. Sul lungo periodo, la società nel suo insieme sarà sotto una minaccia costante, perché chiudere ogni via verso i mezzi (di dissenso, ndr) pacifici e soffocare la società civile ha conseguenze spaventose.
Nell’ultimo mese attivisti noti all’estero (come Patrick Zaki e Ramy Shaath) sono stati rilasciati. È una sorta di nuova strategia per evitare le pressioni internazionali? Perché, allo stesso tempo, abbiamo assistito all’apertura di nuovi fascicoli contro attivisti politici poco prima della revoca dello stato di emergenza.
Patrick Zaki e Ramy Shaath avrebbero dovuto essere rilasciati fin dal principio, non ha alcun senso tenerli per anni in detenzione preventiva senza un reato. Mi arrabbio quando correggere l’errore della loro detenzione, che è illegale, viene considerato una svolta. Parlare di un cambiamento è una bugia. Sono stati rilasciati appena dieci attivisti, mentre a decine sono stati arrestati e a molti sono state comminate sentenze ingiuste in processi ingiusti: Alaa Abdel Fattah, Hesham Fouad, Zeyad el-Eleimy, Mohammed El Baqer, Hossam Moanes. Lo stesso con lo stato di emergenza: gli articoli della legge sono stati trasferiti dentro altre leggi, rendendo la situazione ancora più difficile.
Qual’è lo stato di salute del movimento per la democrazia e della sinistra egiziana?
Rabbia repressa, una grande rabbia, ma circondata da carri armati. Un regime di polizia soffocante, da una parte, che indebolisce partiti politici e sindacati. Dall’altra, partiti politici e sindacati che non resistono abbastanza.
Com’è cambiato l’Egitto negli ultimi otto anni, dopo il golpe del 2013? Lei ha una lunghissima esperienza come avvocato e difensore dei diritti umani, e anche come prigioniero politico. C’è qualcosa di nuovo in questo tipo di regime o è solo una replica, peggiorata, del vecchio?
Nella mia vita ho vissuto sotto Nasser, Sadat, Mubarak, i Fratelli musulmani e sotto il regime attuale. Non ho mai assistito a una repressione organizzata come questa. La situazione è la più brutale di tutte le precedenti. Una situazione che ci ricorda la Romania sotto Ceausescu, il Cile di Pinochet o la Libia sotto Gheddafi, ma senza il petrolio o i soldi di Gheddafi.
E il popolo egiziano è cambiato? Lo spirito di Tahrir è ancora vivo? Anche alla luce del costante aumento dei poveri a causa delle politiche economiche del governo: la povertà ha effetto sulla capacità di organizzazione degli egiziani?
C’è un detto: «I popoli repressi hanno cattivi principi morali». È un detto che si addice all’Egitto di oggi. Povertà, oppressione e paura hanno diffuso le tenebre nel paese, ma (per il regime) questo non è un successo, è solo un antidolorifico temporaneo. Quando gli egiziani vedono il panico che si genera nel regime verso la rivoluzione di gennaio 2011, la ricordano e ne sono fieri. Così declina la popolarità del regime, fino allo zero. Questo mi rende ottimista per il futuro.
Legato a questo, c’è una divisione interna tra sostegno e resistenza ad al-Sisi? Può contare su un sostegno forte dalla base?
Non c’è una divisione. Non vedo più un sostegno «popolare» al regime, ma solo da parte di chi beneficia ed è complice dei suoi crimini. All’opposto, c’è un popolo oppresso e arrabbiato, ma frammentato.
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