«Nenhuma Dor», «Nessun dolore». È un triste paradosso riprendere in mano l’ultimo album di Gal Costa, uscito nel 2021 per la Biscoito Fino, e scoprire che il suo titolo poteva anche essere considerato un mirabile epitaffio. Gal Costa, senza dubbio una delle rainhas della Música Popular Brasileira, in quel progetto musicale rivisitava se stessa e riproponeva dieci successi della sua straordinaria e lunghissima carriera (da Avarandado a Coraçao vagabundo, passando per Baby, Sò louco…). Nessuno ci ha pensato allora, ma forse Gal, chiamando al suo fianco in quel lavoro alcuni tra i più creativi «colleghi» della nuova generazione – Seu Jorge, Criolo, Tim Bernardes, Zeca Veloso, Rubel, Jorge Drexler – aveva pensato, più o meno consapevolmente, di passare il testimone e di farlo nel modo più naturale per una musicista: giocando coi suoni. È stato l’ultimo regalo della cantante bahiana che è morta ieri mattina nella sua casa di San Paolo.

GILBERTO GIL, amico fraterno e complice di molte avventure discografiche della cantante, ha voluto subito esprimere il suo dolore: «Molto triste e colpito dalla morte di mia sorella Gaúcha Gal Costa». «Ah, Brasile… che vuoto. Senza Gal Costa, che tristezza infinita», ha scritto sui suoi social la cantautrice Zélia Duncan. Messaggio di cordoglio anche da parte di Lula: «Gal Costa è stata una delle più grandi cantanti del mondo», il ricordo accorato del presidente eletto del Brasile. Mentre per l’ex presidente Dilma Rousseff, «Gal è una costellazione e sarà sempre ricordata per la sua arte sublime, la sua voce espressiva e il suo sguardo da guerriera». Non sono messaggi di circostanza, perché dei 77 anni della sua biografia, quasi 60 Costa li ha passati a deliziare il mondo con la sua voce dall’intonazione purissima. Una voce impeccabile che però riusciva a porgere senza freddezza, senza mai sfiorare la posa e il manierismo. Era nata il 26 settembre del 1945 a Salvador de Bahia. Il suo nome all’anagrafe era Maria da Graça Costa Penna Burgos. «Graçinha», come la chiamavano gli amici, era nipote di un portoghese che si trasferì nelle vicinanze di Bahia per mettere in piedi una fabbrica di sigari, la Costa-Penna.
Gal Costa conobbe Veloso verso la metà dei ’60. Era cresciuta ascoltando Angela Maria e Dalva de Oliveira e mise ben presto in mostra la ferrea volontà di divenire una cantante. Un desiderio fomentato anche da una madre che amava la musica e la spingeva a provarci. Quando esplose la bossanova capì che la delicatezza e l’intimismo contenute in quel modo di cantare le appartenevano. Eppure alla sua voce dalla purezza cristallina e alla sua figura sofisticata fu necessario un vigoroso mutamento di stile per raggiungere il successo. Un mutamento che arrivò con il Tropicalismo, l’epicentro di un vero e proprio sisma culturale e politico. Gal Costa fece cordata con una folta pattuglia di geniali complici. Caetano Veloso, Gilberto Gil, Tom Zè, Os Mutantes, Maria Bethània, Nara Leào, Jorge Ben e la stessa Costa, metabolizzarono modelli d’ogni tipo: dai Beatles all’esperienza degli happening, dal movimento hippie al sincretismo verdeoro. La consacrazione per il movimento arrivò nel clima teso e confuso del IV Festival da Música Popular Brasileira, dove la prorompente Costa eseguì un’appassionata versione di Divino Maravilhoso con uno stile assai più potente ed incisivo del solito.

LE NOTE precise e delicate che aveva sempre eseguito si trasformarono in un grido fremente vicino al soul, al rock. Con Veloso, nel 1967 compose i brani del proprio esordio discografico, Domingo, ma a fornirle una nuova identità contribuirono anche Roberto ed Erasmo Carlos, che con lo spartito di Meu Nome E Gal le regalarono un vero e proprio biglietto da visita. Dopo il rivoluzionario live Fa-Tal, Gal Costa assecondò le nuove tentazioni musicali di Veloso e Gil (India, Cantar). A piedi scalzi, ed esibendo un afflato performativo inarrivabile, Gal Costa tornò gradualmente a recuperare il suo canto chiarissimo, riportando in secondo piano l’aggressività da rockeuse. Scegliere solo alcuni dei suoi trentadue album solisti è davvero operazione complicata, anche perché le sue corde vocali si sono messe al servizio di ogni genere di stile. Ha cantato i forró più commerciali, recuperato il samba, si è rituffata nella bossa (Gal Costa canta Tom Jobim del 1999), inaugurato sperimentazioni intriganti (O sorriso do gato de Alice con Arto Lindsay nel 1994). Un impegno fertile, generoso, che ha scavalcato il millennio, l’ha fatta entrare nella Hall of Fame e l’ha sempre vista passeggiare a proprio agio sui palchi del mondo.