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Freud, dai propri fantasmi alle verità oggettive

Freud, dai propri fantasmi alle verità oggettiveSigmund Freud, Sandor Ferenczi, Hanns Sachs. In piedi: Otto Rank, Karl Abraham, Max Eitingon, Ernest Jones, nel 1922. Foto di Brandstaetter/Getty Images

Considerazioni sui verbali «La scuola di Freud sottosopra»: uno studio di Francesco Napolitano edito da Quodlibet, ci introduce nelle riunioni che ogni mercoledì sera si tenevano nello studio di Freud

Pubblicato circa un anno faEdizione del 29 ottobre 2023

Pour faire une omelette il faut casser des œufs, scriveva Freud, citando il proverbio francese per giustificarsi dell’indiscrezione necessaria a procedere sia nell’analisi, abbordando argomenti sessuali, sia nella ricerca e nella scrittura, per esempio utilizzando la propria attività onirica nella sua opera fondamentale, L’interpretazione dei sogni. Qui metteva però le mani avanti, precisando trattarsi di «humana e humaniora, niente di veramente privato, cioè di personalmente sessuale». Intanto, andava scoprendo che, se non tutto è sessuale, pulsione e libidosono dappertutto nelle faccende umane, a cominciare dai sogni, che tentano di figurarne l’appagamento.

Inevitabile il richiamo leggendo il nuovo libro di Francesco Napolitano, La Scuola di Freud sottosopra Ciò che la storia della Psicoanalisi dice alla Psicoanalisi e viceversa (Quodlibet, pp. 240, € 22,00), che ci porta abilmente a curiosare nelle riunioni scientifiche regolarmente convocate, ogni mercoledì sera, nello studio privato di Freud, dal 1902 al 1918. I verbali, dal 1906 redatti diligentemente da uno dei partecipanti, Otto Rank, che riceveva per questo un regolare compenso, costituiscono, come nota Napolitano, «un documento di eccezionale valore storico, un unicum nel suo genere, perché consentono di … ascoltare quasi dal vivo l’intreccio di voci dei pionieri della Psicoanalisi». Eppure quei verbali stentarono a vedere la luce, e furono pubblicati solo a partire dagli anni Sessanta: dei quattro volumi che li raccolgono, peraltro, in italiano è stato tradotto solo il primo, nonché una scelta a cura di Mario Lavagetto (Palinsesti freudiani, Bollati Boringhieri, 1998) relativa alle discussioni, tutt’altro che episodiche, sulle opere d’arte e i loro autori.

Secretati, quei verbali lo furono presumibilmente per ragioni di discrezione, per non «rompere le uova» nel «paniere» della psicoanalisi, che si era nel frattempo trasformata da movimento di pochi adepti in ampia istituzione internazionale. Forse, quelle trascrizioni  entravano in rotta di collisione con l’agiografia freudiana che si andava costruendo in quegli anni; forse esibivano troppo crudamente l’ingenuità delle enunciazioni teoriche dei primi freudiani; forse potevano suggerire che fosse superfluo il lungo e difficile percorso di training per accedere alla pratica psicoanalitica, se i primi analisti ne avevano fatto pressoché a meno e nemmeno erano tutti medici. O forse, «col loro resoconto di battibecchi, controversie, aggressività, gelosie, invidie, rivalse e querulomanie tra i partecipanti, mettevano tristemente in mostra l’umano troppo umano che cova in coloro i quali, preda della propria, irrisolta conflittualità, accampano la pretesa di risolvere quella altrui», scrive Napolitano. A ciò va aggiunto il fatto che, rivelando il costo psichico del passaggio (1908) dalla iniziale dinamica «movimentista» a quella istituzionale, quei verbali mostravano «la necessità di imbrigliare il caos dei moti transferali … ratificando così il paradosso consistente nel normare e normalizzare una professione di per sé impossibile e sotto molti aspetti di fatto anomala». Più in generale, quelle discussioni trascritte documentano «la difficoltà di trasformare le pulsioni sessuali dirette – così le chiama Freud – in pulsioni inibite nella meta … condizione necessaria sia della cura sia delle relazioni di gruppo».

Napolitano ci conduce sapientemente e con profonda conoscenza avanti e indietro nei meandri di quei verbali, allargando spesso lo sguardo alla storia personale dei partecipanti, al contorno storico e culturale della Vienna di quegli anni, ma arrivando anche alla storia successiva della psicoanalisi e a quella d’oggigiorno, e più ampiamente alla storia del pensiero scientifico e filosofico sull’essere umano. Ci rivela così, tra le pieghe delle dinamiche di quelle riunioni e seguendone ritmi, scansioni e ripetizioni,  i «sussurri del tipo embrassez-moi pour l’amour de la psychanalyse», rendendoci partecipi del coinvolgimento affettivo dei «sedotti» che entravano a far parte di quella cerchia ristretta, o delle proteste di «chi, armato fino ai denti, vorrebbe svincolarsi, costi quel che costa, dall’asfissia di quell’amour» nei confronti del professor Freud o di chi si proponesse come sostituto.

Quanto all’inconscio sessuale, esso era al tempo stesso oggetto di indagine, e sollecitato negli stessi esploratori, talvolta impetuosamente fino a rompere ogni argine. Con una scrittura abile, ricercata, che sollecita curiosità ed è  spesso divertente, perfino esilarante (com’è ovvio, trattandosi di sessualità), Napolitano ci accompagna in questa investigazione, che a tratti ha la suspense di un giallo, ben equipaggiato della conoscenza freudiana e psicoanalitica sui lapsus e i moti di spirito, sul lutto, l’ambivalenza e la paranoia, sull’omosessualità, e specificamente sulla «Dea libido», quell’ordine del sessuale che Freud cerca di difendere dagli attacchi degli stessi suoi allievi – e ancora oggi dagli stessi psicoanalisti.

Certo le passioni, poco importa quali, sono quasi sempre ostacoli sulla strada della verità, come Freud diceva dell’altro grande potere, l’amore. A maggior ragione, scrive Napolitano, allorché si passa dal triangolo di un piccolo gruppo al «chiliagono» di una grande società e «la conflittualità edipica di ciascuno entra in risonanza con quella di tutti gli altri, diventa esponenziale e, imboccando le rapide della regressione, finisce per ammarare in dinamiche degne di un giardino d’infanzia».

Certamente, parafrasando con Napolitano l’adagio secondo cui quando qualcuno giudica qualcosa in genere veniamo a sapere di più su quel qualcuno che sul qualcosa, è vero che quando si mettono in moto delle teorie, in genere veniamo a sapere qualcosa anche di chi le ha ideate, tanto più (ma non solo) se la sua teoria verte sull’ordine del sessuale. Si scopre così che, come ha detto Roudinesco citata dall’autore, parlando dei loro casi clinici e di questioni teoriche, quei pionieri «si riferivano per lo più a sé stessi, alla loro vita privata spesso tumultuosa, alla loro complicata genealogia familiare, alle loro nevrosi, alla loro identità ebraica, ai loro disturbi psichici e sessuali, alla loro rivolta contro i padri e spesso alla loro profonda malinconia».

Tutto ciò non inficia affatto la scienza che si andava delineando e corposamente costruendo. Contrariamente alla tesi di Popper, secondo cui una conoscenza oggettiva è una conoscenza senza soggetto conoscente, i verbali presi in esame da Napolitano svelano in vivo come, proprio in quella trama personale di carne sangue fantasie e passioni, trapeli la verità dell’oggetto che la psicoanalisi andava scoprendo e di cui cercava di organizzare una teoria: la ricchezza degli apporti soggettivi, scrive Napolitano, «può … guadagnare l’oggettività». Il che dovrebbe contribuire a tenere viva la speranza di vedere presto pubblicati in Italia i restanti tre volumi dei verbali rimasti in giacenza, o en souffrance, come dicono i francesi.

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