Internazionale

Fra i soldati impazienti di entrare nella Striscia

Fra i soldati impazienti  di entrare nella StrisciaSoldati israeliani verso il confine della Striscia di Gaza, nel sud di Israele – Ap

Reportage Il famoso Iron Dome, la «cupola di ferro» che avrebbe dovuto salvare i civili da qualunque incursione aerea, e che sabato si è rivelata così imperfetta, ora funziona

Pubblicato circa un anno faEdizione del 15 ottobre 2023

Rosmarino e ulivi separano le cartuccere e i bossoli nei kibbutz. All’ingresso il filo spinato e il picchetto armato. «Stampa? Parcheggiate sul ciglio e aspettate». È una giornata di preparativi nei pressi della Striscia di Gaza, le truppe israeliane sono pronte. Gli allarmi suonano più volte durante il giorno, segno che Hamas ha ancora missili da sparare. I soldati non ne possono più, aspettano da giorni il momento in cui saranno chiamati a intervenire. Negli accampamenti ormai si ammazza il tempo.

Capannelli di soldati passeggiano tra i mezzi corazzati a pochi km da Gaza, nei pressi del kibbutz di Zikim, il più vicino al confine. Ci spingiamo sulla marina e veniamo fermati da alcuni soldati delle forze speciali, non hanno il solito portamento sciatto delle truppe regolari, sono equipaggiati di tutto punto e presidiano una posizione strategica. Nei pressi di Zikim ieri dei miliziani di Hamas avrebbero provato un attacco dal mare finito nel sangue. Oggi la costa da Ashkelon al confine di Gaza è presidiata da una flottiglia con la bandiera bianca e blu e la stella di David. «Cosa cercate?» chiedono i militari minacciosi. «Niente, stampa». «Questo non è un posto dove potete stare, andate via!».

A 5 MINUTI, dall’alto dell’autostrada, fa bella mostra di sé un acquartieramento della fanteria meccanizzata. Corazzati, per lo più semoventi, gli stessi che l’Ucraina ha tanto richiesto agli alleati occidentali, schierati ordinatamente a file di 6, con le tende dei fanti a cornice. «È l’ultimo avvertimento!» urla un poliziotto che non abbiamo mai visto dall’altro lato della carreggiata, «non riprendete e andate via, ora!».

Nonostante il cowboy e il suo tono minaccioso i militari israeliani non si mostrano inquieti alla presenza dei giornalisti. In nessuna guerra un esercito schiererebbe un reparto intero di truppe e mezzi così in bella vista. Vuol dire che non hanno paura degli eventuali attacchi del nemico. Confidano nel fatto che le loro armi non possano raggiungerli o che ci sia uno scudo onnipresente in grado di proteggerli, il famoso Iron Dome, la cupola “di ferro” che avrebbe dovuto salvare i civili israeliani da qualsiasi incursione aerea e che sabato scorso si è rivelato invece così imperfetto. Ora funziona, ad Ashkelon nulla cade al suolo, così come a Sderot. Ma Sderot è una città fantasma. Hamas aveva intimato ai civili israeliani di evacuare entro domenica e i civili se ne sono andati. Ci sono solo militari in strada e qualche buca creata dai missili quassam. Piccole buche, più piccole di quelle create dai vecchi Grad russi in Donbass, ma non per questo meno letali. «Ieri qui ci sono stati due feriti e un morto», spiega Dan, un soldato falascià, ovvero di origine etiope, di stanza nella 969° brigata che ora presidia Sderot.

A POCA DISTANZA i soldati sono inquieti. Non ne possono più di aspettare. «State per attaccare?» chiediamo. Ridono, come a dire che non sarà una domanda falsamente innocente a svelare i loro piani. Ma iniziano a innervosirsi. Ogni tanto qualcuno mette della musica, si creano dei gruppi di militari che danzano in circolo con le braccia intrecciate sotto le spalle e urlano cori. Cosa dicono? «Niente…» risponde l’interprete. Cosa? «Che Gaza sarà distrutta». Online più tardi inizia a circolare un video in cui dei coloni israeliani ballano intonando «Gaza sarà un cimitero» e il coro sembra simile, ma l’interprete non conferma e noi non parliamo l’ebraico. Ad ogni modo, cosa aspettano non lo sappiamo. Se le pressioni dell’Onu, per cui «evacuare un milione e mezzo di persone dalla Striscia di Gaza è praticamente impossibile» o degli Usa, che tramite il presidente Biden hanno dichiarato che la loro priorità «è salvaguardare la vita dei civili palestinesi» hanno avuto effetto non possiamo saperlo. Ma appare improbabile.

NEL PRIMO POMERIGGIO il premier Netanyahu, l’odiato primo ministro «che ha permesso tutto ciò» come dicono in molti qui in Israele, visita le truppe nei pressi di Be’eri e di Kfar Azza, dove pochi giorni fa sono stati rinvenuti i corpi di diversi civili massacrati. Ai militari dice, come si vede in un video su Twitter: «Sta arrivando la prossima fase, siamo tutti pronti».

Secondo alcuni militari che abbiamo incontrato sarebbe indispensabile abbattere i palazzi di Gaza nord prima di entrare via terra. «Non possiamo permettere che la nostra fanteria venga bersagliata dai cecchini di Hamas» ci spiegano. Per questo starebbero bombardando da giorni e senza contare che con i palazzi crollano a pezzi vite su vite. «I terroristi vanno fermati» è lo slogan, ripetuto dovunque. Anche la religione dà forma questo conflitto, che è prima di tutto, come mi spiega Seth, «un conflitto di civiltà». Nei campi, ai check-point e persino alle stazioni di servizio si vedono soldati che si fanno aiutare a indossare i tefillin intorno al braccio oppure piccoli gruppi che pregano da un libretto con i versi della Torah distribuito prima della grande mobilitazione. Qualcuno ci dice, in via confidenziale, che l’attacco potrebbe essere combinato: reparti speciali dal mare e dal cielo (infatti una delle squadre incontrate da Netanyahu era proprio di paracadutisti) con l’obiettivo di distrarre i difensori e permettere ai carri armati di entrare agilmente dal nord della Striscia di Gaza. Dovunque andiamo non sembra che siano contemplate alternativa alla «punizione collettiva esemplare». Così deve essere, così sarà.

È L’ULTIMO FUOCO di Netanyahu, il premier che qui tutti accusano di non aver fatto abbastanza o di aver sbagliato tutto, a seconda dell’interlocutore. Un politico «deviato da 15 anni di potere che negli ultimi tempi ha passato più tempo a evitare il suo processo che a governare il Paese» dice David, un tenente colonnello. Ma «non è il momento». Un altro slogan. Non è il momento di protestare, nonostante i familiari dei rapiti che chiedono di «riportarli a casa» sfidando la pioggia serale di Tel Aviv. Non è il momento nonostante un anno di proteste contro una riforma che ha tramutato lo stato di Israele in una «democrazia vuota» in cui l’esecutivo vuole controllare la magistratura. Non è il momento nonostante 9 ostaggi siano morti nell’incursione dei reparti speciali israeliani di venerdì notte. Ora è il tempo del sangue.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento