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«Finalmente l’Italia», oggi i 12 migranti saranno trasferiti al Cara di Bari

Cittadini del Bangladesh nel centro di trattenimento di GjaderCittadini del Bangladesh nel centro di trattenimento di Gjader

Rimpatriota Il viaggio via mare dalla Libia: «Vedevamo Lampedusa. La costa era a poche centinaia di metri»

Pubblicato circa 2 ore faEdizione del 19 ottobre 2024
Giansandro MerliINVIATO A GJARDER

«Siamo molto felici. Grazie. Grazie. Grazie mille». Un sorriso, prima timido e poi sempre più grande, scioglie la tensione sofferta in questi giorni dai dodici richiedenti asilo, cinque egiziani e sette bengalesi, reclusi a Gjader: potranno finalmente toccare terra in Italia, lo hanno stabilito ieri i giudici del tribunale di Roma.

A spiegare nel dettaglio come sono andate le cose ci sono la parlamentare Pd Rachele Scarpa e il dirigente di Arci nazionale Maso Notarianni. Alla fine augurano a tutti buona fortuna: «Speriamo di rivedervi liberi e che nel nostro paese vada tutto bene». Le formalità si rompono, scatta qualche abbraccio e tanti saluti con le mani, pugno contro pugno. La delegazione, organizzata dal Tavolo asilo e immigrazione (Tai), ha tenuto alta l’attenzione sui centri per 72 ore, senza pause. La deputata Avs Francesca Ghirra aveva visitato nuovamente le strutture in mattinata e dichiarato: «Altro che modello da esportare, qui è un orrore».

Tra quelle sbarre e quelle recinzioni, un fazzoletto grigio di ferro e cemento costruito sulla terra rossa della campagna albanese, le persone erano state rinchiuse mercoledì scorso. Solo qualche giorno prima credevano di essere arrivate alla fine del loro incubo: la fuga dal paese di origine, le violenze subite in Libia e poi il rischio di morire nel Mediterraneo.

Qualcuno ha raccontato di essere partito perché temeva persecuzioni da parte delle autorità, qualcun altro che non aveva il pane per mangiare e sfamare la famiglia. Tutti desideravano una vita migliore, magari anche a Tripoli, dove contavano di trovare un lavoro. Non sapevano che sarebbero andati incontro a torture e detenzioni. Finiti nelle mani delle organizzazioni criminali non potevano più tornare indietro.

«In Libia i mafiosi mi hanno rapito. Ci tenevano al buio e con le mani legate. Non ci davano da mangiare. L’acqua era pochissima. E poi ci picchiavano continuamente. Con ogni scusa», dice al mediatore culturale del Tai un ragazzo bengalese. Vicino a lui i cinque egiziani mostrano cicatrici e fasciature su gambe e braccia. È ormai noto a tutti, grazie ai rapporti dell’Onu e alle tante testimonianze dei sopravvissuti, che nel paese nordafricano le violenze contro i migranti non sono occasionali ma sistemiche. Servono a estorcere soldi. Servono a ridurre in schiavitù. Anche alcune di queste persone l’hanno vissuta sulla propria pelle: «Lavoravamo sotto minaccia, con turni lunghissimi e in condizioni molto dure. Non ci pagavano mai».

Superare il Mediterraneo era necessario per essere trattati di nuovo come esseri umani. O almeno così speravano. Soprattutto quando la traversata pareva conclusa. «Vedevamo Lampedusa. La costa era a poche centinaia di metri. Avremmo dovuto tuffarci per raggiungerla. Così saremmo arrivati in Italia e non qui». Giovedì due egiziani avevano riferito ai parlamentari della vicinanza della costa, che violerebbe i termini del protocollo Italia-Albania. Ieri lo hanno ripetuto anche gli altri tre.

Ma quando sono stati soccorsi, verosimilmente da una motovedetta della guardia costiera, quella terra si è allontanata. Li hanno imbarcati sulla nave militare Libra. A bordo il fotosegnalamento, poi lo sbarco in Albania. Così questa Odissea è continuata anche a terra, prima nell’hotspot di Shengjin e successivamente nella struttura di trattenimento di Gjader.

Quando il mediatore chiede cosa pensa del centro, un signore egiziano stringe pollice e indice intorno al collo alzando lo sguardo fino al punto in cui il muro di ferro lascia spazio al cielo, con una deviazione finale di 45 gradi per scoraggiare ulteriormente le fughe. Il centro è soffocante. Con le sue recinzioni, i suoi container, le porte blindate e le finestre sbarrate del Cpr adiacente. «Questo è un carcere, ma noi non abbiamo fatto nulla», aggiunge un altro ragazzo.

Ieri il tribunale di Roma ha stabilito che là dentro non devono starci. Ha sottolineato che non devono stare in nessuna delle strutture detentive costruite dal governo Meloni in terra albanese. Perché sono riservate alle procedure accelerate di frontiera che possono essere applicate solo a chi proviene da un paese sicuro. Ma né Egitto, né Bangladesh lo sono. Lo dicono i criteri stabiliti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea.

I magistrati romani hanno ordinato di liberare tutti senza ritardi, sul territorio italiano. Ma in mezzo c’è il mare e al porto manca una nave per il trasferimento. Così la privazione della libertà, iniziata lunedì quando sulla Libra i migranti hanno saputo che sarebbero finiti in Albania, continua per un altro pomeriggio e un’altra notte.

Questa mattina è in programma il trasferimento a Bari. Dovrebbero essere accolti nel Cara della città. Alle otto è previsto l’attracco nel porto di Shengjin di un mezzo della guardia costiera partito ieri da Brindisi per recuperarli: il sigillo sul fallimento della sfida che la premier Giorgia Meloni aveva lanciato lo scorso autunno. Puntandoci sopra tanti soldi pubblici, fino a un miliardo in cinque anni.

Cosa ne sarà di tutta questa storia, delle strutture già realizzate e di quelle a cui ieri lavoravano ancora ruspe e operai impegnati ad ampliare le galere etniche d’oltre Adriatico, è presto per dirlo. Le decisioni dei giudici italiani ed europei sembrano una pietra tombale su tutto il progetto. Meloni, però, non può mollare: ha scommesso troppo. Perciò ieri ha provato a rilanciare: «Risolverò anche questi problemi». Li chiama così ma in realtà si tratta dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione e, almeno fino all’entrata in vigore del nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, dalle norme europee. La verità è che il governo vorrebbe semplicemente infischiarsene. In Italia e in Albania.

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