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Fermo violento per cinque attivisti italiani in Bulgaria

Fermo violento per cinque attivisti italiani in BulgariaControlli di frontiera in Bulgaria

Migranti Perquisizioni invasive e comunicazione negate, il trattenimento dura 20 ore. Intanto continuano i respingimenti illegali delle guardie di frontiera

Pubblicato 7 giorni faEdizione del 20 settembre 2024

Cinque attiviste e attivisti del Collettivo Rotte Balcaniche e di No Name kitchen sono state trattenute per oltre 20 ore nella caserma di Border Police di Malko Tarnovo, nella regione sud-orientale della Bulgaria, al confine con la Turchia. La polizia bulgara è stata violenta sia fisicamente che psicologicamente, mettendo le mani al collo delle attiviste, facendole spogliare e perquisendole in modo invasivo, negando per tutta la durata dell’arresto la possibilità di chiamare un avvocato e ricevere assistenza medica. Il fermo è avvenuto nel tardo pomeriggio tra martedì 10 e mercoledì 11 settembre a seguito del ritrovamento da parte delle attiviste di un gruppo di dieci persone migranti nella foresta, tra cui due donne e tre bambini, in gravi condizioni di salute a causa del lungo cammino senza acqua né cibo.

Non è la prima volta negli ultimi mesi che il gruppo di attiviste, di cui chi scrive fa parte, deve affrontare l’aggressività delle guardie di confine. Con il progetto «safeline», infatti, i collettivi sul campo si occupano regolarmente di ricerca e soccorso delle persone bloccate nei boschi, talvolta tra la vita e la morte, in zone di frontiera estremamente militarizzate. L’obiettivo del progetto è salvare la vita a chi altrimenti sarebbe abbandonato nelle foreste ed evitare l’altrettanto pericoloso ritrovamento da parte delle autorità, che regolarmente usano armi da fuoco, cani addestrati per l’attacco, mazze da baseball, usando violenza sulle persone in movimento prima di rispedirle spogliate di tutto in Turchia.

I violenti «push-back» illegali, ovvero i respingimenti, da parte della polizia bulgara sono una pratica assodata, testimoniata addirittura dagli agenti di Frontex, come riportato dalla recente inchiesta di Balkan Insight, che svela tanto le intimidazioni delle autorità bulgare verso gli agenti della polizia europea, quanto l’ipocrisia di quest’ultima. Frontex infatti continua ad aumentare la propria presenza nella regione, promettendo 500 agenti, ed è solo grazie agli ingenti investimenti europei – in veicoli, armi, sistemi di sorveglianza, etc. – che la Bulgaria può continuare una politica di chiusura delle frontiere sempre più aggressiva. Nel 2023, la direzione della polizia di frontiera ha riportato quasi 180 mila «tentativi di ingresso illegale impediti», che certamente rappresentano solo una parte dei respingimenti totali effettuati.

«Abbiamo trovato il gruppo alle 16 del 10 settembre – raccontano alcuni membri del Collettivo Rotte Balcaniche – Le persone erano semi-svenute a terra, esauste e disidratate, dopo tre giorni senza acqua. Una delle donne stava vomitando, uno dei bambini non era cosciente». È stato immediatamente allertato il 112, ma è arrivato un uomo in mimetica non identificato con un cane aggressivo e dei poliziotti, che hanno preso le attiviste per il collo e le hanno sbattute a terra, portandole poi in centrale.

«Ancora prima di essere ufficialmente arrestate, veniamo separate, ci viene impedito di comunicare tra noi e di usare i nostri cellulari – continuano – Alle urla intimidatorie si aggiungono insulti razzisti contro un membro del nostro gruppo di origini asiatiche. Veniamo interrogate singolarmente a più riprese durante tutta la notte, ci accusano di essere pagate per quello che facciamo, di essere amiche dell’attentatore di Solingen. Veniamo fatte spogliare e perquisite, mentre è continuamente negato l’accesso ad un legale». Due ragazze aggiungono: «A due di noi sono state rifiutate delle medicine che dobbiamo assumere quotidianamente. Abbiamo passato la notte nella stessa stanza facendo fatica a dormire per il freddo».

Per tutta la durata dell’arresto è stato infatti negato il diritto a comunicare attraverso il telefono e alla difesa legale. Nonostante l’azione di soccorso non violi alcuna normativa, anzi dovrebbe essere un dovere delle autorità, questo tipo di condotte sono continuamente osteggiate da parte della polizia, che non gradisce presenze terze e solidali in un territorio in cui è solita agire impunita nell’oscurità della notte e dei boschi. La presenza di testimoni infatti disturba l’ordinario svolgersi dei respingimenti di massa, ed è stata finora una efficace strategia da parte del Collettivo Rotte Balcaniche per inceppare queste pratiche mortifere.

Solo nel mese di agosto i membri del Collettivo hanno effettuato venti soccorsi ritrovando donne incinte, bambini, anziani feriti, solitamente disidratati, affamati, esausti, sotto shock. «Ma sono sicuramente solo una piccola parte delle persone che rischiano la vita per attraversare il confine», raccontano. Non di rado, attiviste e attivisti ritrovano cadaveri, come Khaled, un ingegnere siriano di 30 anni, Majd, un ragazzo di 26, o Ahmed, che ne aveva solo 16. Corpi che altrimenti sarebbero rimasti a marcire nelle foreste: i confini della Bulgaria, come di tutta la rotta balcanica, sono ormai un cimitero a cielo aperto.

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