«Attraverso la mia arte voglio mostrare al resto del mondo cosa accade dentro Gaza», dice Yasmin Al-Jarba, artista e studentessa, durante la giornata di iniziative per la Palestina che al Forte Prenestino è organizzate da Yalla Roma, Gaza Freestyle e Bds. Sono oltre 120 le città, di 45 paesi del mondo, in cui cortei, presidi, performance e dibattiti scandiscono la solidarietà con la popolazione di Gaza sotto le bombe israeliane.

YASMIN AL-JARBA è arrivata in Italia dal campo di Al-Burj con una borsa di studio sei giorni prima dell’attacco di Hamas. Con un murales, una foto o un dipinto racconta la sua terra, vuole mostrare all’Occidente la realtà dei territori occupati.

«Se i bianchi vedessero anche solo per un giorno come è costretto a vivere un palestinese forse si renderebbero conto che ciò che dice Israele perde senso», dice durante il corteo che attraversa la capitale nel pomeriggio Karim Thib. Fa parte del movimento degli studenti palestinesi, tra gli organizzatori della mobilitazione insieme all’Unione democratica arabo palestinese, l’Associazione dei palestinesi in Italia e altre sigle. La marcia raccoglie migliaia di persone e parte dai Fori Imperiali. Chiede di porre fine al massacro nella Striscia e all’occupazione israeliana. «Non abbiamo più bisogno di iniziative di raccolta fondi, non è il tipo di aiuto che interrompe la guerra», dicono dal camion.

LA RIFLESSIONE sul ruolo dell’Occidente nei bombardamenti che da cento giorni stanno radendo al suolo Gaza è il filo rosso delle iniziative che dalla periferia Est arrivano al centro. Come nelle altre piazze del mondo si chiede il cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti umanitari e sanitari, in più si invita il governo italiano a interrompere le relazioni politiche, economiche e militari con Israele. «Ma non possiamo illuderci che il cambiamento lo facciano i governi o le organizzazioni internazionali. Altrimenti avrebbero risolto il problema decenni fa. La lotta dobbiamo e possiamo farla tutti», sottolineano gli attivisti.

Karim Thib ricorda che il silenzio, se non la complicità, dell’Occidente rischia di sdoganare un doppio standard, del resto già evidente guardando al trattamento riservato agli ucraini rispetto ai palestinesi: «Dobbiamo interrompere questo genocidio perché non farlo significa riconoscere che un popolo vale meno di un altro».

IL CORTEO SI MUOVE verso Cavour, spinto dal sole in fondo alla strada e dalle voci dei palestinesi di seconda generazione. «Non abbiamo intenzione di dimenticare quello che è successo in questi giorni, né nei 75 anni precedenti in cui siamo stati oppressi e schiacciati», sostengono gli studenti palestinesi. La storia della questione israelo-palestinese e la realtà sul campo sono gli strumenti che usano gli attivisti per contestualizzare la situazione drammatica che si vive in queste settimane.

«Come può sostenere Israele di essere vittima di un genocidio quando in 75 anni tra dispersi, prigionieri, feriti, ha ucciso migliaia di persone? Quando con le sue politiche di colonizzazione ha strappato il territorio palmo dopo palmo a un altro popolo? – continua Thib – Le parole sono il nostro strumento per abbattere i muri e cambiare il pensiero».

UN’INTERPRETE della lingua dei segni traduce i discorsi per chi non può sentire «perché la voce del popolo deve arrivare a tutti e non vogliamo lasciare nessuna indietro», spiega Maya Issa, presidente del movimento degli studenti palestinesi. Dal microfono vengono poste domande a cui gli stessi partecipanti alla marcia rispondono, gridando all’unisono il significato della propria presenza e della piazza.

APARTHEID è una delle parole che ricorrono più spesso a Roma ma anche negli altri cortei. Non è una parola casuale perché serve a segnalare il legame con quello che sta avvenendo alla corte dell’Aja. «Il Sudafrica – ricordano ancora i manifestanti – sa cos’è l’apartheid e il fascismo. A prescindere dal risultato, siamo grati a quel paese per non averci lasciati soli».