«Sempre la stessa cosa, ma sempre diversa». Così su El País Sergio C. Fanjul ha definito in sintesi la Feria del Libro di Madrid, la cui 82esima edizione si è chiusa domenica scorsa dopo un paio di settimane segnate dalle solite folle di visitatori e da una quantità di pioggia che in Spagna come da noi appare, tra maggio e giugno, ancora straordinaria (ma fino a quando?).

Già: per chi di buona o cattiva voglia ci va ogni anno, le fiere del libro sono proprio così, sempre uguali e sempre diverse, e forse a stupire di più è che si tengano ancora, e anzi si moltiplichino, nonostante il calo costante del numero di persone disposte a imbarcarsi nell’impresa di leggere un testo più lungo di mille o duemila battute, spazi inclusi.

Esageriamo, naturalmente, e lo dimostra il successo, qui in Italia, delle 817 pagine di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi (Laurana), partito con una prenotazione iniziale in libreria di 168 copie e arrivato ad averne vendute, a oggi, oltre ventimila. Ma la meraviglia che ha accompagnato questa irresistibile ascesa (dovuta in larga parte alla grande esperienza editoriale di Giulio Mozzi, editor e primo sostenitore del romanzo) testimonia e contrario l’eccezionalità del caso.

È difficile, infatti, oggi parlare di libri – parlarne sul serio, fuori dai toni propagandistici degli influencer o dei booktoker (che hanno comunque il merito di parlarne, se vogliamo) – senza che sottotraccia si avverta una certa malinconia, l’ironia sconsolata di chi si trova, non troppo volentieri, ad assistere a un passaggio d’epoca.

È ironico e malinconico Fanjul, quando descrive un rito-cardine delle varie fiere del libro: il firmacopie. «Gli autori – scrive – firmavano, confinati negli stand come animali allo zoo, esposti agli occhi indiscreti e alle lusinghe e alla furia del pubblico, in quella che per alcuni è una segreta gara di vanità e che altri prendono più filosoficamente. Non era vietato dar loro da mangiare (anzi, questa è una delle ragioni per cui si fa tutto questo)».

Ed è ancora più ironica e malinconica la scrittrice portoghese Lídia Jorge in un doppio reportage, dalla Feria di Madrid e dalla contemporanea fiera di Lisbona, uscito di nuovo su El País. Celebre e apprezzata nel suo paese, da noi molto meno (diversi anni fa Giunti e Bompiani hanno pubblicato suoi testi, più di recente sono stati tradotti due titoli dalle piccole edizioni perugine dell’Urogallo, specializzate in letteratura lusofona), Jorge confronta le due manifestazioni, accomunate dall’avere entrambe più di ottant’anni e di svolgersi all’aperto, «tra alberi frondosi e qualche prato».

Ma la serenità iniziale, la convinzione che «Sant’Anna, paffuta e anziana, continuerà a sedersi, con un libro aperto, a leggere storie a sua figlia la Vergine Maria prima di addormentarsi», lascia presto il posto al dubbio. «Il fatto che ci sentiamo così a casa tra libri e scrittori, coltivando l’idea che questo sia il nostro modo di tenere vivo il rapporto tra l’aedo dell’età del Bronzo e il pubblico del presente, e che questo progetto abbia un futuro, non è solo una questione di fede?».

La risposta la si può immaginare: «la grande scopa digitale» incombe, e forse – neanche tanto in là – gli editori «inizieranno a chiedere a ogni candidato autore di compilare un certo modulo, che indichi se canta, balla, suona la chitarra o il pianoforte, è disposto a spogliarsi in pubblico, ha un tatuaggio, ha la capacità di improvvisare, interagisce con gli anfibi o possiede qualche altra abilità che lo rende unico, perché senza farsi notare per qualcosa del genere, il suo libro non avrà mai successo».

Un modulo «ancora inesistente», scrive Jorge – ma ne siamo proprio sicuri?