Femminismo, donnismo e la necessaria autocoscienza «istituzionale»
Femminismi Gli studi di settore confermano che i media possano contribuire a rafforzare o a scardinare le discriminazioni: eppure...
Femminismi Gli studi di settore confermano che i media possano contribuire a rafforzare o a scardinare le discriminazioni: eppure...
Quando parliamo di genere e potere i media si prestano a un duplice livello di analisi. Il primo riguarda la distribuzione di genere nella filiera produttiva e in particolare la (sotto)rappresentazione di donne e persone non binarie nei ruoli apicali. E qui i media funzionano come qualunque altro contesto professionale. Il secondo livello di analisi mette, invece, a fuoco la loro specificità di industrie di merci «simboliche», ovvero che producono senso. Lo fanno tramite rappresentazioni, nelle quali si esprimono spesso precise ideologie, anche di genere.
Gli studi di settore confermano che i media possano contribuire a rafforzare o a scardinare le discriminazioni e, quindi, a creare una società più divisa o più inclusiva. Questo perché i media forniscono «modelli di ruolo», capaci di influenzare la nostra visione del mondo e del nostro posto nel mondo, ovvero della nostra identità.
Ora, nel sistema dei media dotati di responsabilità editoriale – editoria, broadcasting, stampa, cinema – i cui contenuti, per intendersi, non sono user-generated come sui social ma frutto di un’organizzazione produttiva professionale, questi due livelli sono strettamente connessi. Un esempio: la serie di rapporti annuali “Boxed-in”, relativi al panorama televisivo statunitense, mostra da sempre che la presenza di donne in posizioni apicali dietro le quinte si accompagna a un numero maggiore di donne nei ruoli creativi (registe, sceneggiatrici, autrici) e che, a loro volta, i programmi realizzati con il contributo di almeno una donna in tali ruoli presentano un più elevato protagonismo femminile.
Occorre però una precisazione: per quanto sia banale, sia nel backstage che nei contenuti mediali la femminilizzazione dei ruoli decisionali e persino di leadership (o di protagonismo narrativo), non è certo garanzia di scardinamento delle logiche del potere maschile. Un conto è il femminismo, un altro conto è il «donnismo». Molte donne in posizione di comando, che potrebbero dunque essere di ispirazione per altre, emulano invece pedantemente stilemi, linguaggi, culture professionali e forme collaudate di interazione tipiche degli uomini. Come in una mimesi di autorevolezza e dei modelli di genere che storicamente la incarnano, cancellando il proprio, di genere, evidentemente vissuto come marca di inadeguatezza al ruolo. Questo fenomeno omologativo si esprime anche nella resistenza di molte donne a utilizzare la declinazione al femminile della propria carica o professione, rivendicando una presunta «neutralità» che, invece, come è noto, cela e riproduce la trappola del maschile «sovraesteso» o dell’universalismo indebito che dir si voglia, tale per cui il maschile definisce e sussume in sé ogni altro genere.
Trovo molto interessante che una simile trappola si annidi anche tra le rappresentazioni mediali più «progressiste». Ma andiamo con ordine.
Il primo e più macroscopico dato, quando intrecciamo visibilità e genere sul piano delle rappresentazioni, riguarda il persistere a livello globale di una netta spartizione del campo: l’ultima edizione del Global Media Monitoring Project, cioè il più esteso studio su donne e informazione, che nel 2020 ha coinvolto TV, stampa, radio e social di 116 paesi, mostra come sui temi percepiti come più «seri», ovvero le cosiddette hard news – politica, economia, finanza, tecnologia, scienza, ecc. – si tende a dare la parola più agli uomini, mentre le donne sono più spesso associate alle soft news – società, costume, cronaca, ecc. L’Italia non fa eccezione. Ad esempio, l’ultimo Monitoraggio della rappresentazione della figura femminile nella programmazione televisiva Rai (2023) conferma la prevalenza maschile in tutti gli ambiti. Le donne riescono a superare il 40% di presenze solo nella trattazione di questioni sociali (45,5%), relative all’istruzione (44,6%) e soprattutto nella categoria «temi sociali dell’Agenda ONU 2030» (48,7%), tra cui spiccano quelli legati all’uguaglianza di genere. In questo modo autorevolezza e competenza femminili sono limitate alla sfera privata e relazionale, a quella estensione che ne è la collettività – in linea con la costruzione del femminile come principale agente della riproduzione sociale – e soprattutto alle «questioni di genere»: l’accesso delle donne alla parola pubblica ha qui una motivazione essenzialista, ovvero le donne sono esperte «in quanto donne» e non in virtù di altri saperi. Ci torneremo a breve.
Le donne hanno voce in capitolo solo per il 35,4% nella politica interna e per il 37,5% nella politica estera. Qui i media agiscono da specchio davvero poco fedele, che rimpicciolisce ulteriormente la già esigua presenza delle donne nei ruoli apicali in politica. Ad esempio, alle ultime elezioni, del settembre 2022, le candidate erano 2.104 su un totale di 4.746, ovvero il 44,3% del totale, valore che rispetta le quote definite dal cd Rosatellum. Tuttavia, la TV – che anche in epoca social ha molto peso nella formazione delle intenzioni di voto – non ha rispettato le effettive proporzioni: i dati dell’Osservatorio di Pavia ci dicono che nel periodo compreso tra il 21 agosto e il 23 settembre 2022, gli uomini hanno occupato il 77% del tempo totale di parola concesso in TV agli esponenti politici e le donne solo il 23%, nonostante, come abbiamo visto, le candidate fossero il 44,3%.
Ma anche laddove le donne sono incluse nella rappresentazione ciò avviene, a volte, in forme problematiche che riproducono quella stessa discriminazione che intenderebbero contrastare. Questo fenomeno prende il nome di «inclusione differenziale»: ad esempio, invitare una persona disabile a un talk show solo per parlare di abilismo (invece che di un qualunque altro tema di interesse generale). L’inclusione differenziale è molto comune nel caso delle donne, lo accennavamo poco sopra, e si ripete ogni volta che appaiono «in quanto donne», ovvero per effetto di una segregazione tematica in ambiti di interesse tipicamente femminili. L’unico dato disponibile per il panorama mediale italiano proviene una volta ancora dai monitoraggi della programmazione Rai (2022) e conferma la persistenza del fenomeno, che da solo è responsabile di oltre metà dei casi di mancato rispetto dell’identità di genere.
Chiariamoci: se c’è un denominatore comune ai (trans)femminismi di ieri e di oggi è il gesto, teorico e politico insieme, del partire da sé. In questo senso è corretto che siano le categorie sociali che esperiscono una discriminazione o marginalizzazione a poter parlare di sé e per sé attraverso il sistema mediale. Il problema sorge quando questi gruppi sociali sono incastonati nella rappresentazione attraverso l’occhio di chi incarna, o ritiene di incarnare, una presunta «norma sociale» e quindi guarda a chi se ne discosta come a un «diverso». L’inclusione differenziale fa esattamente questo, e sulla dimensione di genere è a mio parere particolarmente infestante: sotto le sembianze inclusive radica una visione di differenza femminile in realtà estremamente reazionaria, intesa non come differenza tra donne, uomini, e qualunque altro genere – tutti correttamente posti sullo stesso piano – ma come il differire delle donne e di qualunque altro genere dagli uomini, ovvero una differenza gerarchica, una misura negativa, un gap da colmare. Che ribadisce la normatività del maschile. Come contrastare tutto questo? Esistono ormai molti esempi di buone pratiche nei media mainstream, che in alcuni casi, come la BBC, arrivano persino a includere corsi obbligatori per i e le dipendenti di ogni livello, finalizzati a decostruire gli stereotipi interiorizzati (e dunque verosimilmente destinati a trasferirsi al prodotto creativo). Una sorta di autocoscienza «istituzionale», insomma, a cui sarebbe utile guardare.
*Commissaria AgCom e docente Università Roma Tre
* Le opinioni espresse sono rese a titolo personale e non impegnano l’amministrazione.
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