Federico Falco, monotonia della pampa, ovvero il lutto
Nicanor Araoz, «Senza titolo», 2011
Alias Domenica

Federico Falco, monotonia della pampa, ovvero il lutto

Interviste letterarie Autore di testi che problematizzano il rapporto con lo spazio, Federico Falco offre – dalle pagine del suo romanzo «Le pianure» – una originale via di uscita narrativa dalla dicotomia città/campagna
Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 luglio 2023

Nella cultura argentina la relazione tra città e campagna si è costruita spesso in maniera conflittuale, e questa contrapposizione è  diventata uno degli assi costitutivi della sua letteratura. Una delle conseguenze è stata la biforcazione  di due tradizioni parallele, una legata a Buenos Aires, la grande capitale, e l’altra che ha rappresentato le diverse fisionomie della  provincia. In questa prospettiva, Federico Falco, nato nella provincia di Córdoba nel 1977, apparterebbe alla seconda corrente, insieme a un gruppo di altri scrittori suoi conterranei; ma, di fatto, una letteratura ancorata alle radici locali è smentita dalla continua ibridazione di testi e contatti  tra autori  provenienti  da tradizioni lontane. E proprio i libri di Falco sono  un esempio lampante  della tendenza a  costruire narrazioni in cui la trama problematizza il rapporto con lo spazio, superando le ormai inservibili dicotomie del passato. Ne abbiamo parlato con l’autore argentino,  partendo dal suo romanzo Le pianure e dai racconti di Silvi e la notte oscura (2018), entrambi pubblicati da Sur.

Della sua biografia culturale fa parte  un certo interesse per le arti visive e per la fotografia, che ha presumibilmente influenzato la costruzione del paesaggio protagonista del suo romanzo Le pianure: lo sguardo del  narratore sulla pampa che lei descrive coincide con il suo?
Era una grande sfida, per me, trovare il modo di raccontare  un paesaggio assolutamente essenziale come quello della pampa: avevo già lavorato, qualche anno fa, alla rappresentazione visiva dell’idea di orizzonte, e alla possibilità che una sola linea dividesse il piano in due spazi,  cielo e  terra. Da questa premessa sarebbe potuta nascere una descrizione sintetica della pampa, ma avrebbe lasciato fuori la possibilità di concentrarmi sui dettagli, sul vissuto corporeo di questo speciale paesaggio, che implica una  ricerca persino ossessiva per dare un nome a ciò che sembra sempre uguale. È stato un lavoro affascinante, che ha comportato il confronto del mio punto di vista sul paesaggio con quello del mio personaggio, una persona ormai disincantata, che osserva la pampa non tanto concentrandosi sugli elementi che concorrono alla sua bellezza, quanto su quelli della sua ripetitività, e nella monotonia  trova una sorta di metafora del proprio lutto.

Il protagonista del romanzo torna in campagna per isolarsi, e da allora il suo progetto consisterà nel coltivare un orto,  recuperando uno spazio naturale, ormai abbandonato, per suo uso personale. Ci si dedica con grande impegno, anche se non sempre con  successo. Come ha immaginato questo rapporto tra il suo personaggio e la natura?
Non è in gioco, per lui, una fuga dalla città, piuttosto il suo è un ritorno al paesaggio dell’infanzia, quando viveva con i nonni. Verso la fine del romanzo gli faccio dire che se nella vita qualcosa va in pezzi generalmente si torna a casa dei genitori, o si parte per un viaggio, o ci inventa una nuova vita. Il suo recupero dell’orto è per lui un tentativo di ricollegarsi alla tradizione familiare, per rimetterla in gioco, e al tempo stesso produrre il proprio cibo funziona come una sorta di terapia corporea per non cedere al pensiero ossessivo della separazione.

Viene quasi automatico il riferimento al  Candide di Voltaire, con il suo orto da coltivare. C’è nel ritorno alla natura del personaggio anche la ricerca di un’innocenza perduta? 
Non so se sia l’innocenza ciò che insegue,  di certo c’è nel protagonista il tentativo di  ristabilire dei legami con la vita: la sua è piuttosto una ricerca di semplicità, che all’inizio del romanzo esprime  dicendo che in città non si percepisce il passare del tempo, come invece avviene in campagna. Il movimento del romanzo asseconda la lenta scoperta del fatto che non c’è mai stato un paradiso perduto, e quel ritorno alla campagna altro non è se non un rifugio nella non-vita. Capirà, quest’uomo addolorato, che la sua via d’uscita non è nella campagna, ma nella sfida a capire di cosa abbia davvero bisogno in quel preciso momento della vita.

In diverse occasioni lei ha ripetuto che intende lasciare ai lettori il compito di  finire le sue storie: mi domando come pensa che persone provenienti da  culture e lingue diverse da quella argentina possano orientarsi tra le sue pagine, che per certi versi appaiono così tanto “locali”, centrate su spazi assai ridotti.
Molto di quanto scrivo, in realtà, va oltre i confini del paesaggio: sia il tema del rapporto amoroso, che quelli legati alla nostalgia dell’infanzia e alla relazione con il passato familiare sono abbastanza universali; d’altra parte, ho scritto Le pianure prima del 2020, in un mondo che dopo la pandemia quasi non esiste più. Molti lettori hanno ritrovato tra le mie pagine le sensazioni provate nell’isolamento determinato dalla necessità di difendersi dal Covid, e a partire da questa vicinanza con la fine si sono posti le stesse domande del protagonista, che nell’isolamento è indotto a una regolazione dei conti: si chiede cosa cerchi nella vita, cosa voglia fare, come possa cambiare. In  modo per me inaspettato, il libro è diventato molto più attuale di quanto potessi immaginare.

Il suo romanzo propone anche una riflessione sul rapporto di coppia e sulla rottura delle relazioni. Come vede collegati questi interrogativi con  riflessione con quella sulla solitudine e la lontananza?
A un certo punto del romanzo scrivo che nella narrazione è forse possibile trovare conforto per la necessità di convivere anche con problemi che non si risolvono mai. La separazione dal suo compagno è la causa prima del dolore del mio personaggio, ma il vero lutto riguarda  invece la chiusura di ogni canale di comunicazione con un’altra persona, che non capisce più quel che lui dice, o forse non lo vuole sentire. E questo sconforto gli rivela i limiti del linguaggio. Del resto, il silenzio mi ha sempre affascinato, e per esempio nei miei raconti molto viene taciuto, il nucleo della storia rimane spesso tra le righe. Da Cechov in poi, la storia del racconto del XX secolo è fatta di silenzi, di finali omessi, di ricerche di un contatto con i lettori che vada al di là di quanto il linguaggio può dire. Questo silenzio intriso di scrittura mi interessa da sempre, l’assenza della parola evoca per me sia un mondo selvaggio, che l’abbandono mistico della necessità di esprimersi, che a sua volta sfocia nel silenzio.

Lei tiene spesso in Argentina dei laboratori di scrittura, evidentemente crede nella loro efficacia:  come li ha pensati e organizzati?
Sono fondamentalmente luoghi di incontro, in cui mi piace collegare l’idea di autore a quella di «autorità»: ciò in cui davvero credo è la possibilità di imparare come decidere dei propri desideri, come far fronte ai  propri limiti, come organizzare il proprio rapporto con la lingua, e  con i lettori. Un laboratorio è un buon luogo in cui  porsi queste domande e trovare possibili strategie per  discernere cosa può piacere o non piacere a chi legge, e di conseguenza  decidere cosa tenere o cosa cambiare in un testo,  assumendosi  il rischio che le proprie scelte possano non essere condivise.Nei suoi testi c’è una costante ricerca di precisione, che si traduce anche in  liste di parole, cognomi e oggetti stilate dal protagonista-narratore, mentre altre volte egli indigia a riflettere sul significato di certe espressioni…
Ho un rapporto abbastanza complesso con il linguaggio, che in quanto strumento per comunicare va sfruttarlo al meglio, perché è anche generatore di equivoci. La ricerca sulla lingua da tradurre in scrittura non solo è  parte del mio lavoro, ma è vissuta da me quasi come un obbligo. D’altra parte, essendo io miope, sono costretto  a guardare le cose da vicino, e questo mi ha abituato alla  concentrazione sulla ricerca di una definizione per ogni piccolo dettaglio.

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