Fca-Usa, il binomio perfetto tra gli Agnelli e la Trumpnomics
Le notizie sul gruppo Fca sono due: la prima riguarda un misterioso aumento dei valori di Borsa pur in presenza di dati di vendita 2017 nei suoi due mercati principali […]
Le notizie sul gruppo Fca sono due: la prima riguarda un misterioso aumento dei valori di Borsa pur in presenza di dati di vendita 2017 nei suoi due mercati principali […]
Le notizie sul gruppo Fca sono due: la prima riguarda un misterioso aumento dei valori di Borsa pur in presenza di dati di vendita 2017 nei suoi due mercati principali abbastanza deludenti.
La seconda ha a che fare con un investimento annunciato di un miliardo di dollari negli Stati Uniti, dove verrà trasferita la produzione di un modello dal Messico.
Una volta la famiglia Agnelli e l’Italia erano un binomio apparentemente indissolubile; gli stessi Agnelli e la Fiat, poi, rappresentavano la punta avanzata di un’Italia produttiva che funzionava, proiettata anche dignitosamente sui mercati internazionali.
Da diversi anni ormai la famiglia e i suoi manager sono diventati invece il simbolo più evidente di una classe dirigente nazionale in fuga dalle sue responsabilità e dalle proprie radici.
Le mosse principali di questa discesa agli inferi sono state nel tempo almeno tre.
La prima ha riguardato il trasferimento della sede; oggi il gruppo divide il suo centro di comando tra Paesi Bassi, Londra e Stati Uniti. Le sue vicende continuano d interessarci perché diverse decine di migliaia di dipendenti lavorano ancora in Italia, sia pure tra molte incertezze.
Ed eccoci alla seconda mossa: la famiglia ha deciso di liquidare tutto il suo patrimonio industriale.
Si sussurra da tempo che i pretendenti almeno per la Fca non manchino: si è parlato di Volkswagen, Psa, dei cinesi, di General Motors, della Hyundai.
Il rialzo del titolo in Borsa nei giorni scorsi si spiegherebbe così con delle indiscrezioni che indicherebbero un’accelerazione nei tempi dell’operazione.
Gli Agnelli vorrebbero vendere perché da una parte non sono più interessati alle attività industriali, dall’altra perché apparentemente il gruppo Fca non ha futuro, non avendo investito che molto poco sulle tecnologie che stanno trasformando il settore dei veicoli, in particolare riguardo le vetture elettriche, quelle ibride e quelle a guida autonoma. Perché la Fca non lo abbia fatto è un mistero; mancanza di risorse finanziarie, errori di valutazione del gigante Marchionne, o puro e semplice disinteresse visto che ci si vuole sbarazzare di tutto?
Da questo punto di vista le parole del rappresentante dell’auto Cgil, Michele De Palma, che ieri in una sua nota chiedeva un tavolo di trattative con il governo e con l’azienda per parlare della produzione in Italia di auto ibride ed elettriche, parole pur meritevoli di grande attenzione, temiamo siano destinate al vento. Ad impossibilia nemo tenetur.
Intanto la famiglia ha deciso di assaggiare qualche primo morso della torta e di mettere sul mercato Magneti Marelli e la Comau. In tali aziende è concentrato un grande know-how tecnologico, unico nel nostro paese, e che potrà andare a finire chissà dove, dal momento che i politici si interessano di acquisizioni di imprese nazionali da parte del capitale estero solo quando la cosa tocca gli interessi del cavalier Berlusconi.
Eppure nelle due aziende potrebbe intervenire insieme ad altri la nostra Cassa Depositi e Prestiti.
La terza mossa della famiglia è quella appena annunciata. Il gruppo investirà un miliardo di dollari per aprire nel Michigan una nuova fabbrica, chiudendo parallelamente un impianto in Messico. Peraltro dal 2009 ad oggi Fca ha investito negli Usa ben 10 miliardi di dollari.
Marchionne approfitta della riforma fiscale di Trump per avviare un’operazione dalla quale ricavare un bel profitto, una fetta ridotta del quale verrà graziosamente concessa ai dipendenti statunitensi, ma non certo a quelli messicani, che naturalmente verranno licenziati.
Il Messico è un paese esposto a tutti i venti, essendo esso, come ricordò già più di cento anni fa Porfirio Diaz, l’ex-presidente, «così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti».
Qualche decennio fa, avendo liberalizzato i movimenti di capitale, il paese aveva visto arrivare all’improvviso una marea di dollari, che però si era precipitosamente data alla fuga quando si era udito qualche colpo di fucile dalle parti del Chiapas. La cosa lasciò il Messico semidistrutto.
Più di recente, si era ormai consolidato ai confini dei due paesi, per sempre tra mille difficoltà e contraddizioni, un sistema industriale che lavorava per il mercato Usa.
Ma ora esso è esposto a tutte le angherie di Trump e dei suoi amici industriali e finanziari, che lo stanno distruggendo.
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