Fantasie cosmo-teologiche-letterarie di Auguste Blanqui in settanta pagine vorticose
Ottocento francese «L’eternità viene dagli astri», nuova traduzione da Adelphi
Ottocento francese «L’eternità viene dagli astri», nuova traduzione da Adelphi
«Ciò che sto scrivendo in questo momento in una cella del Fort du Taureau l’ho scritto e lo scriverò per l’eternità, su di un tavolo, con una penna, degli abiti addosso»: basterebbe questa frase di Louis-Auguste Blanqui, presa da L’éternité par les astres, per intuire come un simile libretto di appena settanta pagine abbia potuto affascinare quell’instancabile inventore di universi paralleli che fu Borges; ma anche un rigoroso anatomista della Parigi di Baudelaire come Benjamin: a lui e ai suoi esegeti si deve, probabilmente, la diffusione di questa singolare «ipotesi astronomica» di Blanqui, altrimenti noto per la sua attività di irriducibile rivoluzionario, che lo portò a trascorrere più di metà della sua avventurosa esistenza in carcere. Fu dietro alle sbarre, infatti, che mentre a Parigi la Comune veniva sanguinosamente repressa, Blanqui scrisse l’opuscolo astronomico pubblicato nel 1872 con il titolo L’eternità viene dagli astri (già uscito nella traduzione di Daria Pozzi per Theoria, nel 1983, e di Giulia Alfieri, per SE nel 2005, e ora ritradotto da Raffaele Fragola per Adelphi, pp.132, € 13,00).
Quelle che Benjamin chiamò «ingenue speculazioni da dilettante», vennero probabilmente indotte al rivoluzionario, comunista e ateo Blanqui, dalla meccanica celeste elaborata da Laplace all’inizio del secolo, ma anche e soprattutto dall’analisi spettroscopica (di cui, senza citare le fonti, dimostra però di conoscere i risultati), grazie alla quale si era appurato che gli elementi costitutivi dei corpi stellari sono limitati e sono gli stessi del sistema solare – dunque, sostiene l’opuscolo, di tutto l’universo. Ammettendo che la lista sia incompleta, Blanqui presenta sessantaquattro «corpi semplici» (non poteva conoscere la tavola che Mendeleev elaborava negli stessi anni), e ipotizza comunque che la lista non superi il centinaio e che si tratti di un numero finito, con la conseguenza che anche le loro possibili combinazioni, benché inconcepibilmente numerose e varie, siano comunque limitate.
Ora, l’unico modo di conciliare l’universo infinito con il numero finito delle composizioni originali («combinazioni-tipo») è ammettere che la natura le ripete indefinitamente per riempire quello che sarebbe, altrimenti, un buio vuoto e senza limiti. La ripetizione, serbatoio che, all’opposto della botte delle Danaidi, trabocca senza sosta e senza vuotarsi mai, è l’infinito: si direbbe che Blanqui lo concepisca come spaziale e solo secondariamente temporale, in quanto il tempo è una combinatoria data una volta per tutte che non può se non replicare se stessa, come in un gioco di dadi. Non c’è principio, infatti, come non c’è fine, degli elementi costitutivi e dunque anche delle loro combinazioni-tipo che si dicono originali, non in quanto «prime in ordine di tempo», ma solo relativamente alle loro configurazioni transitorie.
«La materia è eterna solo nei suoi elementi e nel suo insieme. Tutte le sue forme, umili o sublimi, sono transitorie e periture»: così il sistema solare, secondo il modello oggi detto di Kant-Laplace (ma Blanqui conosce solo Laplace, che dal canto suo ignorava il lavoro del filosofo tedesco), deriva dal processo di raffreddamento e condensazione di una nebulosa, processo che terminerà con la morte cui sono destinati, fatalmente, non solo il nostro sistema ma tutte le nebulose. Se non intervenissero periodiche palingenesi, l’universo finirebbe dunque per diventare un immenso cimitero: i sistemi morti e bui che vagano nello spazio (la gravitazione, e quindi il moto, è una proprietà inalienabile della materia) si scontrano con altri sistemi e la terribile collisione trasforma il moto in calore. Dalla «conflagrazione» ciclopica nascono nuove nebulose, poi nuove stelle, e nuovi pianeti sui quali fioriscono nuove forme di vita.
Qualunque lettore non digiuno di filosofia avrà riconosciuto nella conflagration e nella successiva rinascita dei mondi tanto una eco (probabilmente inconsapevole) dell’ekpýrosis e dell’apokatàstasis stoica, quanto la ripresa dell’eterno ritorno (che Nietzsche, ricordato da tutti gli esegeti di Blanqui, deriva dalla medesima fonte). La stessa metaforica con la quale è trattata la vita dei sistemi astronomici (le collisioni tra corpi celesti sono «matrimoni» e «parti» cosmici, ne derivano «famiglie» di pianeti, ecc.) propone analogie che ricordano il cosmo «grande animale» della fisica stoica (i sistemi stellari sono fatti «dello stesso sangue, della stessa carne, della stessa ossatura»).
Immagini organicistiche che non ci si aspetterebbe di trovare in un contesto sostanzialmente fedele al determinismo meccanicistico di Laplace, ma che Blanqui attenua quando, invece dei sistemi astronomici, si occupa del mondo della vita: l’universo, governato da «leggi inflessibili» segue un «andamento fisso e fatale». Le variazioni cominciano con gli esseri animati e con i «capricci» del genere umano, che fanno la storia di cui siamo così fieri, e tuttavia non conta nulla nella vita del cosmo, o anche soltanto del nostro minuscolo sistema solare, che è nato senza l’uomo e senza l’uomo morirà. Le storie dei popoli o degli individui, determinate appunto dalla scelte di agenti individuali o collettivi, sono del resto varianti anch’esse soggette all’onnipotente legge della ripetizione. Non solo, dunque, ci sono infinite copie dei sistemi astronomici, ma anche infinite copie delle varianti: non soltanto infinite copie di Blanqui che scrive L’eternità in carcere, ma anche infinite copie degli infiniti sosia di Blanqui che sono sfuggiti al carcere o che invece di fare i rivoluzionari sono diventati parroci o farmacisti. L’umana aspirazione all’immortalità è sciocca perché già garantita dai miliardi di sosia che sono vissuti, vivono e vivranno nei miliardi di mondi copie del nostro. E così via.
Le prospettive aperte sono vertiginose e capaci di accendere fantasie cosmo-teologiche-letterarie incontrollate (come dimostra la postfazione di Ottavio Fatica, che si scrive addosso senza ritegno, spaziando da Voltaire a Mussolini, da Nietzsche a Jack London, da Breton a Wartburg, da Federov a Donne, da Philip Dick ad Alexander Grothendieck). Più sobriamente, Blanqui si accontenta della «malinconica» constatazione per cui «ciò che noi chiamiamo progresso è murato su ciascuna terra, e svanisce con essa».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento