Fanny Ardant, il film à venir
Intervista Una delle interpreti più amate del cinema francese racconta aspetti poco noti della sua lunga carriera
Intervista Una delle interpreti più amate del cinema francese racconta aspetti poco noti della sua lunga carriera
Lei è il vento. Le sue labbra soffiano a ogni sillaba il piacere della vita, degli incontri, della parola. « Ah, j’adore les arabes », ne imita la voce di mare e di vento Maïwenn che l’ha diretta tre anni fa in ADN, premiato ai Lumières. «L’amore è il filo conduttore delle storie, sempre: nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema. Non c’è un solo film che, sotto sotto, non sia una storia d’amore: a parte, forse, Il ponte sul fiume Kwai». Appassionata, dolcemente pungente, Fanny Ardant, in teatro in un’evocazione per voce e musica di «naufraghi del cuore», non ha nemmeno bisogno di richiamare l’acuminata diagnosi di Truffaut sul cinema di Hitchcock, che filmava «le scene di delitto come scene d’amore». L’attrice in cui le platee subito innamorate hanno visto la loro regina di cuori, dai tempi della Signora della porta accanto e di Finalmente domenica, regala in scena i brividi emozionanti dell’incognita amorosa nel reading, in coppia con la violoncellista Sonia Wieder-Atherton, di Le Navire Night di Marguerite Duras: testo da cui la stessa Duras aveva tratto nel ’78 il film con Dominique Sanda e che la Ardant ha personalmente adattato, con brani per violoncello solo, al Festival «Voix Vives de la Méditerranée» a Sète, nel sud della Francia, città-culla di poeti, da Valéry a Brassens. È qui, al Musée Valéry, che si è aperta in maggio la mostra del più recente, ossessivo Martial Raysse, con diafane donne vittime idolatrate, che potrebbero essere altrettante Fanny sacrificali.
La prima a Torino al Prix Italia di Le Navire Night rivela al pubblico italiano un aspetto meno conosciuto dell’attrice, che in Francia alterna ai film adattamenti teatrali, spesso ricavati dalla prediletta Duras, a due voci: la sua, vellutata e profonda, e quella del violoncello della Wieder-Atherton, com’è avvenuto nel 2010 al Festival di Spoleto con Chants de l’Est. Il Dialogue pour voix seule et violoncelle (cioè il nuovo Le Navire Night) nasce dalle chiamate anonime, ogni notte a Parigi, di centinaia di uomini e donne sulle linee telefoniche non assegnate al tempo dell’occupazione tedesca: colloqui di amicizia, d’amore, di desiderio, voci di naufraghi della notte che in quel limbo telefonico cercano una fuga dalla solitudine. In questo vuoto imbuto d’intimità, la Ardant seduce, soggioga, commuove, in un nuovo, estremo tête-à-tête con gli abissi della passione, che cadenzano la sua carriera. Ne è impregnato anche il suo primo lungometraggio d’autrice, Cenere e sangue, del 2009, presentato in Italia al Taormina Film Fest e poi a Sguardi Altrove di Milano.
Il ruolo di donna passionale, pronta a sacrificarsi per l’amore, continua così a rafforzarsi, come al Bif&st dello scorso aprile a Bari, dove ha rincontrato l’amica Margarethe von Trotta, da cui era stata diretta in Paura e amore. Sempre molto discreta e appartata, anche all’aeroporto del ritorno a Parigi, dove inforcava un neutro impermeabile e gli immancabili occhialoni scuri, ripassando una parte, cercando di passare inosservata. Ma può il vento passare inosservato?
Le donne del destino hanno finito per orientare il suo destino d’attrice?
Ho sempre preferito parti di donne tormentate e generose anziché senza energia. Non ho mai avuto paura di farmi imprigionare in personaggi del genere, anche perché, come nel caso di Adriana, la cognata nella Famiglia di Scola, sono assai più complessi di quanto appaiano: sono mondi segreti, ogni volta da scoprire.
Film cui è seguito dodici anni dopo «La cena».
Nel ruolo di Flora, la proprietaria della trattoria, ho tessuto le fila d’un’Italia (che amo e dove lavoro sempre di più) gastronomica e allergica. Magnifico personaggio, ‘regista’ della cena, attrice sul suo palcoscenico. Durante lo spettacolo, che dura più o meno quanto una cena, devo incantare gli altri, cancellando la mia privacy, dimenticando me stessa.
Si è ritrovata con Vittorio Gassman, accanto a cui, dichiarava una volta, avrebbe voluto recitare in teatro, avendo trovato affinità di carattere e identiche profondità interiori.
Ma certo! Pur di recitare con lui avrei fatto carte false! L’ho sempre sentito come un fratello di sangue. Incontrandoci sugli stessi set, ci siamo esplorati a vicenda trovandoci gemelli. Non siamo gente normale. Avevamo persino la stessa voglia di giocare con le parole: sistema molto pratico, talora, per rendere nobili le bugie. È difficile per me ricordare una persona che ho tanto amato. Era un timido, ma lo nascondeva, era un impaziente di natura, un po’ malinconico, amava profondamente il teatro e quindi nel cinema odiava perdere tempo, in particolare trovava che i belgi (abbiamo recitato insieme in Fortunata di André Delvaux) fossero troppo lenti e questo lo innervosiva. Diventammo amici: se recitavo in teatro a Roma veniva a vedermi e a salutarmi in camerino e poi a cena, dove speravo che mi dicesse qualcosa sullo spettacolo. Solo a fine serata, al momento del dolce.
Altro attore cui è molto legata è Depardieu, cui ha offerto «Le divan de Staline», visto al Bif&st.
Gérard, come Gassman, è per me molto più d’un compagno di lavoro o di un amico. Dai tempi di La femme d’à côté, il mio esordio con François Truffaut, è rimasto il testimone prezioso dei miei giorni felici. Anche se non lo vedo spesso, so che è sempre là, come un albero, un faro, a ricordarmi che quei giorni li ho vissuti. Dopo averlo diretto in un piccolo ruolo nel mio film precedente, Cadences obstinées, ho sentito il desiderio di girare con lui un lungometraggio, parabola sul potere. Solo lui poteva interpretare un personaggio così odioso come Stalin, che mi interessava in quanto simbolo del potere assoluto, tema che mi affascinava come, da sempre, la storia, la letteratura e l’arte russa. I rapporti con gli attori che ami sono come conversazioni interrotte, un bacio d’addio sul binario della stazione. Ti saluti e salti subito su un altro treno …
E Truffaut?
È stato il primo regista che mi ha dato veramente fiducia: io venivo dal teatro e allora il mondo dello spettacolo era diviso in compartimenti stagni. C’era chi lavorava esclusivamente per il teatro, chi per la tv, chi per il cinema. Il talento di Truffaut era di essere davvero passionné di quel che faceva.
Come mai, dal 2009, è passata anche alla regia?
Per tanti anni, per scaramanzia, non ho messo mai l’occhio dietro la cinepresa. Mi sentivo protetta come attrice, volevo continuare a esserlo. Poi, poco a poco, l’energia dei grandi registi con cui lavoravo, la loro grinta, il loro coraggio mi sono stati d’esempio. Facendo molto teatro, mi son trovata spesso ad avere pomeriggi liberi e ho iniziato a riempirli scrivendo storie. Un giorno un produttore ci ha creduto e mi ha proposto di farne un film, chiedendomi di dirigerlo.
A 74 anni, tre figlie, di padri diversi, tra cui Truffaut, come affronta la terza età?
Ho sempre immaginato la vecchiaia come un’onda. Se ti prende in pieno volto ti travolge, se ci entri dentro ti fai trascinare: viaggi con lei. Mi preparo a questa nuova condizione della mia vita con molta malinconia, come per tutti gli addii. La vecchiaia è la fine del sesso. Il resto rimane. Non ho mai fatto resistenza con una ridicola chirurgia plastica. Qualcuno ha scritto che invecchiare è diventare Gregor Samsa di La metamorfosi di Kafka: tu ti senti sempre uguale, ma sono gli altri che non ti vedono più. È triste, molto triste. Cercherò di reagire con energia: magari, riprenderò a fumare…
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