La partita Iran-Stati uniti è stata vinta 1-0 dalla nazionale Usa che si qualifica così per gli ottavi di finale. Un match dalle forti tinte politiche: Teheran e Washington non hanno rapporti diplomatici da quando, il 4 novembre 1979, un gruppo di studenti prese possesso dell’ambasciata statunitense nella capitale iraniana, tenendo una cinquantina di persone in ostaggio per 444 giorni.

A far salire la tensione le immagini, diffuse sull’account Twitter della squadra statunitense, della bandiera della Repubblica islamica senza l’emblema al centro: un tulipano rosso per ricordare tutti coloro che sono morti per l’Iran, perché la leggenda narra che i tulipani rossi crescano dal sangue dei martiri. Un disegno stilizzato, composto da quattro mezzelune che formano la parola «Dio» in arabo (Allah) con sopra un segno diacritico che sembra la lettera w.

CON QUEL TWEET, la nazionale statunitense voleva esprimere «solidarietà alle donne iraniane». Le autorità di Teheran non hanno però gradito il gesto e sono arrivate a chiedere alla Fifa l’espulsione della squadra americana. La bandiera della Repubblica islamica è poi ricomparsa nel post sull’account Twitter della squadra americana con la scritta stilizzata «Allah» al centro.

Alla luce di queste vicissitudini, ieri sera allo stadio al Thumama l’attenzione era tutta puntata sugli atleti iraniani: si sarebbero astenuti dall’intonare l’inno nazionale, come nella prima partita contro l’Inghilterra, persa 6-2? Oppure avrebbero cantato com’è successo nel secondo match contro il Galles vinto 2-0? Ieri sera, i ragazzi di Carlos Queiroz hanno deciso di sussurrare l’inno, muovendo appena le labbra.

Sono in una posizione assai scomoda, qualsiasi mossa rischia di essere criticata. Se si mettono apertamente contro il regime rischiano il carcere, l’esproprio dei loro beni e – come riferisce la Cnn – ripercussioni ai familiari: secondo l’emittente Usa, i pasdaran avrebbero convocato i calciatori minacciando «arresti e torture» dei familiari in caso avessero mostrato dissenso.

Esemplare il caso del calciatore della nazionale iraniana Voria Ghafouri, scarcerato proprio ieri, in attesa di processo e dietro pagamento di una cospicua cauzione. Domenica era circolata sui media iraniani la notizia del rilascio, smentita però dalle associazioni umanitarie.

Curdo di Sanandaj, Ghafouri ha confermato di essere tornato a casa e ha inviato una sua foto ad Andrea Stramaccioni, già suo allenatore all’Esteghlal e ora commentatore per la Rai ai Mondiali. «Sono molto felice, Voria mi ha detto che torna a casa e stasera si guarderà la partita Usa-Iran in tv», ha detto il tecnico italiano.

IN QUESTO CAMPIONATO del mondo, nel braccio di ferro con le autorità di Teheran l’allenatore portoghese Queiroz ha giocato la carta del compromesso: sfidando ayatollah e pasdaran, è riuscito a portare a Doha l’attaccante Sardar Azmoun. Appartenente alla minoranza sunnita, è da sempre critico nei confronti della Repubblica islamica. Il 25 novembre ha segnato un gol contro il Galles.

Ieri sera, Queiroz lo ha fatto giocare subito, nel primo tempo, preferendolo a Karim Ansarifard. «Nessun compromesso, questo è il gioco della nostra squadra, che sfodera il suo campione solo nel secondo tempo», spiega lo scrittore iraniano Mohammad Toloeui precisando che il fruttivendolo sotto casa sua «a Teheran preferirebbe che la squadra iraniana fosse eliminata da questo mondiale».

Mentre i riflettori sono accesi sul calcio, nel centro-sud dell’Iran un’altra ragazza è stata uccisa dalle forze dell’ordine. Il 24 novembre la sedicenne Mahak Hashemi è stata «uccisa a manganellate mentre stava manifestando a Shiraz». Lo hanno reso noto gli attivisti e il sito saudita Iran International.

«Il nome di questa bellissima ragazza iraniana è Mahak Hashemi», ha scritto l’attivista iraniana Masih Alinejad che ha postato su Twitter una foto che ritrae l’adolescente con un cappello da baseball al posto del velo. «È stata selvaggiamente uccisa a manganellate dal regime islamico mentre protestava a Shiraz», ha denunciato aggiungendo: «Il regime ha persino chiesto un riscatto alla sua famiglia per restituire loro il suo cadavere. Gli iraniani stanno letteralmente morendo per la libertà».

IN TUTTO QUESTO, come si comporta la Fifa? La federazione non si è mai fatta crucci per i diritti umani. Pensiamo al 1978, quando i mondiali si giocarono in Argentina, a quel tempo una dittatura feroce.

Quest’anno, in Qatar, non ci sono state fiaccolate per le 15mila vittime tra i lavoratori migranti. Ma forse la resistenza delle iraniane sta squarciando il velo dell’indifferenza: la Fifa ha autorizzato alcuni gesti di sostegno a favore dei manifestanti in Iran, tra cui lo slogan «Donna Vita Libertà» e i ritratti della ventiduenne Mahsa Amini, la cui morte ha innescato le proteste.