Ancorché non avesse inventato nulla di nuovo, c’è stato un periodo in cui l’ex premier giapponese Shinzo Abe era diventato una sorta di icona per i detrattori del conservatorismo fiscale. In Europa più che altrove.

Il mondo era ancora alle prese con la Grande recessione, ma non tutti i Paesi del mondo avevano scelto di reagire allo stesso modo. Un prima differenza si era vista già tra le scelte di Obama in America, che nel 2009 aveva varato un piano di ripresa da 800 miliardi di dollari, e quelle della Commissione e della Bce in Europa, sfacciatamente orientate alla compressione della spesa pubblica, senza nemmeno il contrappeso di una politica monetaria espansiva (il quantitative easing arriverà nel 2015).

In questo quadro, il programma di Abe (dal quale la nota «Abenomics»), varato nel 2013, apparve immediatamente come una scelta di rottura. Il ritorno all’idea che fare deficit e stampare moneta in determinate circostanze non solo non fa male, ma addirittura è necessario. «Hanno reso finalmente credibile l’irresponsabilità», scriverà di lì a poco il premio Nobel Paul Krugman.

Per i seguaci di alcune teorie macromonetarie più radicali, invero, questo nuovo corso giapponese costituì anche la prova che è sempre meglio avere una propria banca centrale che delegare la politica monetaria ad istituzioni sovranazionali, come nel caso dei Paesi dell’eurozona: con una banca centrale alle spalle non si può fallire, anche se il debito viaggia al 300% del Pil (che lo yen sia la terza moneta di riserva a livello globale non è però secondario). Che poi, tutte le banche centrali oggi si dichiarano «indipendenti», ma alla bisogna si può sempre derogare a questo principio. In Giappone, infatti, bastò semplicemente cambiare un governatore con un altro.

Ma quali erano i pilastri di questo programma che mirava a combattere deflazione e bassa crescita? Innanzitutto una politica fiscale espansiva, tesa a stimolare l’economia con un aumento della spesa pubblica per investimenti. Niente aumento delle tasse (solo più avanti si scelse di aumentare la tassazione sui consumi), finanziamento della spesa aggiuntiva attraverso la monetizzazione del debito (lo stato emette titoli che la banca centrale compra stampando moneta) e acquisto di azioni ed obbligazioni private. Infine, un pacchetto di «riforme strutturali», per rendere più flessibile il mercato del lavoro e migliorare il regime di concorrenza nel mercato interno.

A ben vedere, un approccio keynesiano dal lato della politica di bilancio (la spesa pubblica per riequilibrare la domanda aggregata, stante la debolezza dei consumi e degli investimenti privati) e neoliberista dal lato dei rapporti sociali, delle relazioni industriali, delle dinamiche di mercato.

All’inizio i risultati furono apprezzabili. Crebbero i consumi e l’occupazione, il Pil fece un balzo di oltre tre punti in un anno. Anche le esportazioni fecero un balzo in avanti, grazie al deprezzamento dello yen rispetto al dollaro. Il periodo di euforia, suggellato anche dai guadagni della borsa di Tokyo, nondimeno durò poco. Un anno dopo, nel 2014, l’economia ritornò in recessione e da allora, fino alla crisi pandemica (il 2020 coincide con l’ultimo anno di Abe al vertice del governo), non ha più fatto registrare momenti di particolare vitalità. Nel medio periodo l’ha avuta vinta la stagnazione, insomma. Ma il fiume di denaro immesso nell’economia non ha causato un aumento dell’inflazione, come paventavano i monetaristi ortodossi.

In questi giorni anche in Giappone si parla di inflazione record (mai così alta dal 2015), ma al 2,1% (vicina al target della banca centrale), lontanissima dai livelli raggiunti in Europa e negli Usa, comunque riconducibile alle tensioni geopolitiche del momento. E le previsioni, per l’anno prossimo, parlano addirittura di un’inflazione «di fondo» all’1,1%, nonostante la politica monetaria della banca centrale si mantenga «aggressiva». La dimostrazione, a ben vedere, che un incremento della quantità di moneta in circolazione non determina automaticamente un aumento proporzionale del livello dei prezzi (e non serve evocare la prudenza negli acquisti dei giapponesi nei periodi di incertezza).

Conclusione. Anche Shinzo Abe, in un certo senso, ha sconfitto Milton Friedman ed i sostenitori della «Teoria quantitativa della moneta», senza però risolvere i problemi strutturali dell’economia giapponese. Come tutti i conservatori non ha mai compreso – o non ha voluto comprendere – che esiste una relazione molto stretta tra tassi di crescita deboli e diseguaglianze sociali (negli ultimi dieci anni le disparità di reddito e la povertà hanno raggiunto livelli superiori alla media dei paesi dell’Ocse). E che, pertanto, la «stagnazione secolare» si sarebbe dovuta combattere anche redistribuendo la ricchezza.