Eyal Sivan: «Se Israele è un modello, la democrazia mi fa paura»
Regista, produttore, saggista, docente di cinema Eyal Sivan ha costruito film dopo film una narrazione di Israele dall'”interno” secondo un’interrogazione appassionata della memoria e uno sguardo in dialogo costante col presente e con la realtà del mondo. Dal conflitto Israele-Palestina alla Shoah (Uno specialista, il processo a Eichmann ripercorso con la guida di Hannah Arendt) ogni passaggio approda a una rifondazione dell’immaginario sulle questioni trattate. Forse anche per questo i suoi lavori sono stati spesso controversi o al centro di polemiche, come Route 181 (2004) realizzato insieme al regista palestinese Michel Khleifi, un road movie lungo la linea di confine della risoluzione dell’Onu (mai attuata) del 1947 che stabiliva un possibile stato binazionale.
Sivan nato a Haifa, militante sin da giovanissimo contro l’Occupazione, fotografo prima che cineasta, rifiuta il servizio militare e nell’85 si trasferisce a Parigi. Ci parliamo al telefono da Marsiglia dove vive oggi.
In uno dei tuoi primi film, Izkor-Gli schiavi della memoria (1991) analizzavi come Israele nella sua narrazione utilizza la Storia per giustificare le scelte nel presente. Dal 7 ottobre, il giorno dell’attacco terrorista di Hamas, il governo israeliano utilizza costantemente il paragone tra il nazismo e Hamas.
Izkor, che tu hai citato, è un film di oltre trent’anni fa. La cosa più terribile è che in questo processo non c’è nulla di nuovo, a volte ho l’impressione che tutto è stato detto. Il gesto dell’ambasciatore israeliano di presentarsi all’Onu con la stella di David sul petto conferma questa convinzione. Si vuole dimenticare che quanto è accaduto lo scorso 7 ottobre non inizia in quel momento, e utilizzare la dialettica della Shoah per inquadrarlo è una profanazione verso la memoria della Shoah stessa che ridotta a terrorismo viene denigrata. Lo trovo un insulto come essere umano, come ebreo, nei confronti della mia storia famigliare. Strumentalizzare la Shoah per giustificare qualsiasi atto rimanda a quella ideologia della vittima, fortemente consolidata nella nostra società, secondo la quale quando si è “vittime” ci si trova nella posizione di una “innocenza assoluta” – che di per sé non esiste. Ma non ha alcuna importanza: noi perché vittime della Shoah possiamo permetterci tutto, anche bombardare un campo di rifugiati, gli ospedali, le scuole – “l’innocenza totale” di cui godiamo ci assolve. Tale visione è appunto una profanazione della memoria e una forma di revisionismo. Se Hamas sono nazisti, allora l’Olocausto, il nazismo diventano un atto terrorista? Che dire delle milioni di persone sterminate dall’ideologia hitleriana? L’Europa accetta questa retorica sul nazismo perché è un buon modo con cui sottrarsi alle proprie responsabilità: considerare l’Olocausto terrorismo ci dice che in fondo non è stato così grave uccidere tutti gli ebrei europei. E l’unicità storica della Shoah viene meno. C’è un altro punto: coi nazisti non si poteva cercare un accordo di pace giusto? E neppure negoziare o tentare uno scambio di prigionieri. Dentro questo paragone ogni possibilità di mediazione viene annullata. Ma gli israeliani sono “condannati” a vivere coi palestinesi, anche se continuano in questo massacro di massa – con un numero di palestinesi uccisi spaventoso che viene sempre più avvicinato a una idea di genocidio. Così Israele dopo averli sempre denunciati si trova nella posizione di chi commette dei crimini contro l’umanità. È una politica davvero suicida per tutti gli israeliani.
Molti paesi europei, tra cui Germania e Francia, hanno vietato manifestazioni di solidarietà con la Palestina, mentre le critiche verso la politica israeliana sono tacciate di antisemitismo. Al tempo stesso si moltiplicano i gesti antisemiti.
I governi di destra, liberal-conservatori europei giocano col fuoco: c’è un pericolo concreto di importare questo conflitto all’interno dell’Europa che è già caratterizzata da politiche repressive contro l’immigrazione, dall’islamofobia; e l’atteggiamento espresso verso questo conflitto sembra voler mettere da parte le questioni interne ai paesi europei. Definire ogni critica alla politica israeliana come antisemita rimanda ancora una volta a quello “stato d’eccezione” – assai ambivalente – di cui Israele beneficia. Dai bombardamenti su Gaza nel 2007, alle aggressioni dei coloni che hanno causato molti morti. Il mondo intero ha lasciato fare contro ogni diritto internazionale. Israele gode della facoltà di agire senza limiti, proprio in virtù di quello “stato d’eccezione”: ciò che per gli altri vale, per loro non esiste. Questa politica dei governi europei è stata però controproducente per Israele: poter andare avanti nei propri crimini, commessi ben prima del 7 ottobre ha posto infatti gli ebrei, gli israeliani in un crescente pericolo.
Nei documenti ufficiali del governo israeliano diffusi la settimana scorsa c’è il progetto di espellere i Gazawi nel deserto egiziano del Sinai. Lo credi possibile? Si legge che «saranno aiutati dal loro fratelli arabi e musulmani». Ma sappiamo che questa storia della solidarietà coi palestinesi nel mondo arabo è abbastanza ipocrita.
Quel documento risulta redatto il 3 ottobre, e rispecchia la politica israeliana dal 1948 che si sintetizza in un massimo di terra e un minimo di popolazione araba. La differenza oggi è che con l’arrivo al governo dell’estrema destra più radicale finalmente – come dicono – possono finire il lavoro non fatto nel ’48. È il grande sogno, o l’illusione di espellere i palestinesi dalla coscienza collettiva – una cosa che peraltro è già in atto da quando Gaza è diventata una prigione a cielo aperto, da quando sono stati eretti i muri che eliminavano milioni di palestinesi dalla spazio comune nella percezione israeliana come in quella europea. Riguardo i paesi arabi, nonostante quanto si dica i loro regimi dittatoriali sono amici dell’occidente: vale per l’Egitto coi suoi sessantamila prigionieri politici o per i paesi del Golfo. Le popolazioni arabe sono nelle mani di queste dittature ma ai paesi occidentali interessa soltanto salvaguardano i loro profitti. Non mi aspetto nulla dai paesi arabi, Al-Sisi sta negoziando quanto gli conviene in termini di soldi, armi, cancellazione del debito e se trovano un accordo favorevole accetterà i palestinesi nel deserto. Non esiste una politica araba di solidarietà, si tratta di singoli stati e di interessi economici. Lo stesso vale per la Turchia: ha accettato i profughi siriani per soldi promettendo agli europei di «trattenerli» così da avere mano libera nella repressione dei curdi. Più che solidarietà la definirei una generale attitudine commerciale. Quel piano israeliano conferma che l’attuale conflitto non è né etnico né di sangue ma politico, è così che deve essere visto e trattato.
Prima dell’inizio della guerra in Israele sembrava esserci un movimento di opposizione contro il governo.
Non utilizzerei la parola “guerra”, lo è forse da parte israeliana ma i palestinesi non hanno un esercito: guerra è per me uno scontro tra forze eguali. Questa è un’operazione militare e un’ aggressione alla popolazione civile. Così come non è un atto di guerra l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma si tratta di terrorismo. Prima di quel giorno Israele viveva come in un pic-nic sul vulcano. Con la diffusa convinzione fra gli israeliani di stare bene, di sentirsi al sicuro al punto da organizzare una festa alla frontiera con Gaza senza pensare ai possibili rischi. La contestazione interna non è mai stata contro l’occupazione o lo stato di guerra, non ha mai espresso critiche per i duecento morti in Cisgiordania quest’anno o per i pogrom dei coloni. Contestavano la corruzione, la riforma della giustizia, cose molto importanti ma che non sono il cuore del problema. Le persone dicevano di voler rifiutare il servizio militare e però appena è accaduto quel che è accaduto c’è stata una reazione quasi tribale, e il 90% degli israeliani ha chiesto di andare a combattere mostrando di avere gli occhi e le orecchie chiusi proprio come il governo. Di non voler capire cioè che uno stato coloniale di occupazione non permette di vivere normalmente, che una costante repressione delle gente che soffre non dà alcuna speranza. In fondo quella contestazione – nella quale non ho mai creduto – era più estetica che strutturale: si battevano per la democrazia ma per gli ebrei non per tutti, per poter continuare a godere dei propri privilegi, e non trovarsi a subire ciò che nei Territori è già realtà.
A tal proposito: una delle obiezioni più comuni alle critiche verso la politica israeliana è che Israele è una democrazia.
C’è molto da discutere sul significato di democrazia oggi. A quella osservazione si può rispondere che anche il Sudafrica era una democrazia ma solo per i bianchi. In tutto questo c’è una questione razzista molto forte. Lo ha provato la mobilitazione mondiale per gli ucraini a fronte di un silenzio assordante verso i siriani e tanti altri massacri compiuti nel nostro mondo. Quindi: la democrazia è oggi soltanto una questione di bianchi, di occidentali, ed è stata completamente svuotata del suo significato di eguaglianza? Lo stesso vale per Israele: la democrazia è riservata agli ebrei, e la metà della popolazione di Israele – gli arabo-israeliani – non la conosce, non ha diritto di voto, diritti civili, subisce una costante discriminazione. Se questo per l’occidente è un modello di democrazia mi fa molta paura. Vuol dire che l’idea di una nuova democrazia europea poggia sul razzismo, sulle diseguaglianze, su uno stato d’eccezione che permette di tenere la gente in prigione senza processo o di entrare la notte nelle case senza ragione.
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