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Evan Hunter, sismografie anagrafiche di un jazzista

Evan Hunter, sismografie anagrafiche di un jazzistaJoel Meyerowitz, Thanksgiving Day Parade, New York City

Scrittori statunitensi Se uno scrittore ricorre alla maschera dello pseudonimo, lo fa in genere per seri motivi: Emily, Charlotte e Anne Brontë, per esempio, faticavano a essere prese in considerazione in un’epoca […]

Pubblicato circa un anno faEdizione del 9 luglio 2023

Se uno scrittore ricorre alla maschera dello pseudonimo, lo fa in genere per seri motivi: Emily, Charlotte e Anne Brontë, per esempio, faticavano a essere prese in considerazione in un’epoca di autentico patriarcato, perciò divennero i fratelli Ellis, Currer e Acton Bell. Il nome di Eric Blair suonava troppo borghese, per cui si trasformò in George Orwell. Arnold Friedrich Vieth von Golßenau, discendente di una nobile casata prussiana, quando si convertì al comunismo, divenne Ludwig Renn. Alice B. Sheldon, per entrare in quel boy’s club che era la fantascienza americana degli anni Sessanta (e forse anche per far perdere le sue tracce al vecchio datore di lavoro, la Cia) cambiò sesso alla propria firma e divenne James Tiptree Jr.

Sceglie di cambiare nome anche il protagonista di Le strade d’oro, romanzo di Evan Hunter uscito negli Stati Uniti nel 1974 e accuratamente tradotto in italiano da Giuseppe Costigliola (Neri Pozza, pp. 491, € 20,00). Certo, un jazzista è più credibile se si chiama Dwight Jamison, e non Ignazio Silvio di Palermo; ma non è questa l’unica ragione che induce Dwight/Ignazio a cambiare nome.  Egli crede, infatti, fermamente nell’idea che tutti possano davvero diventare americani, e che il melting pot sia qualcosa di concreto, quindi coerentemente sposa in prime nozze una ragazza ebrea, nonostante l’opposizione della sua famiglia, che poco apprezza un marito goy.

Dopo un frustrante apprendistato da pianista classico, Ignazio/Dwight si tuffa nel mare del jazz, in quegli anni ribollenti che erano i Quaranta e Cinquanta, quando il be-bop scompigliò un genere musicale che solo per superficialità si pensa sia «nero», visto che nacque nella creola New Orleans, e persino negli Stati Uniti ha avuto protagonisti di tutti i colori. Dal momento che la musica di Duke Ellington e Benny Goodman, di Charlie Parker e Stan Getz, di John Coltrane e Dave Brubeck è innegabilmente una componente cruciale dell’identità culturale americana, con la sua decisione di suonare gli standard vecchi e nuovi del jazz Ignazio/Dwight fa un ulteriore passo verso l’integrazione.

Il romanzo di Hunter racconta, a tutti gli effetti, la storia della difficile, e in ultima analisi impossibile (se ne renderà conto anche il protagonista) fusione delle varie etnie, che hanno costruito –volenti o nolenti – gli Stati Uniti; e al tempo stesso è un’autobiografia mascherata dell’autore, all’anagrafe Salvatore Albert Lombino, di genuina discendenza lucana.

Fin dal suo esordio letterario, Lombino si firmò Evan Hunter (e assunse questo pseudonimo come suo nome legale) per avere più chance in un mercato editoriale che ancora mal digeriva un cognome italiano; il successo lo premiò subito con Il seme della violenza, romanzo del 1954 ambientato in un istituto tecnico di New York, dove la questione etnica è centrale, dato che tutto ruota intorno allo scontro tra gli studenti, per lo più afroamericani o ispanici, e gli insegnanti bianchi. Trasposto quasi subito per il cinema, il romanzo consacrò Lombino/Hunter come un affermato scrittore professionista.

In Italia conosciamo lo scrittore americano con un altro dei suoi numerosi pseudonimi, che adottò per la sua produzione di polizieschi: Ed McBain. Sotto questo nome ha prodotto la celebre seri di romanzi dell’87° distretto, gialli del tutto realistici e accuratamente documentati, che invece di ruotare attorno a un eroe solitario, sia detective o poliziotto, puntano su un gruppo di agenti di polizia tra i quali – non a caso – si fa notare un italoamericano, Steve Carella. Senza cadere nella destrorsa mentalità law & order, e senza avvolgere il lavoro investigativo in mitologie ai confini del superomismo, Ed McBain nutre i suoi gialli del minestrone di popoli e di culture che abita New York – e gli Stati Uniti in genere. Gli agenti di McBain sono operai della detection, non geni alla Sherlock Holmes; e si affidano – come ognuno dei romanzi della serie afferma pressoché ritualmente – a consolidate procedure investigative.

Lombino è stato un prolifico operaio della letteratura: ha scritto decine di romanzi, dal giallo alla fantascienza, sotto i suoi due pseudonimi principali, e altri ancora ne ha adottato. Dai suoi gialli sono stati tratti film di grandi registi – da Chabrol a Kurosawa; due romanzi dell’87° distretto sono diventati episodi della serie Columbo; e ha lavorato come sceneggiatore nell’hitchcockiano Gli uccelli.

Tutto ciò aiuta a comprendere fino a che punto sia intrinsecamente autobiografico Le strade d’oro: come il giallo, il jazz nacque in quanto genere «popolare» di puro intrattenimento, poi  attraverso una rapida evoluzione diventò una forma d’arte sofisticata e complessa. E come il jazz, il giallo è stato terreno di scambi proficui tra artisti bianchi e neri: nato dai racconti di Poe, ispiratori di Conan Doyle, è diventato un genere prediletto da alcuni  grandi scrittori afroamericani, da Chester Himes a Walter Mosley. Non stupisce, dunque, che Hunter abbia scelto un jazzista come suo alter ego: in fondo, sia i pianoforti che le macchine da scrivere hanno una tastiera.

Molte componenti del romanzo esibiscono un valore simbolico: Ignazio prende il nome Dwight dal presidente Eisenhower, che impose la desegregazione negli stati del sud – dettaglio tutt’altro che irrilevante in una storia centrata sulla musica «in bianco e nero». Inoltre, la cecità da cui Dwight è affetto viene probabilmente da quella del pianista jazz italo-americano Lennie Tristano; ma al tempo stesso allude alla fede cieca di Ignazio/Dwight nella fusione delle diverse identità etniche in un’unica, inclusiva americanità: «Da quel momento in poi, i nipoti dei russi avrebbero ballato la cucaracha con le pronipoti dei norvegesi; i negri avrebbero cantato la Marsigliese il giorno di San Patrizio mentre marciavano sulla Fifth Avenue accanto agli svedesi; il Columbus Day, nei bar lungo la Third Avenue, tedeschi e finlandesi avrebbero brindato all’Anno della Farfalla e canticchiato ninnenanne tzigane; e il giorno di Natale gli ebrei e gli Avventisti del Settimo giorno avrebbero lodato Budda, mentre gli atei e gli agnostici avrebbero recato doni all’altare».

Tanta concordia nazionale si rivela tuttavia illusoria: proprio negli anni in cui Lombino/Hunter scrive il romanzo, prendono fuoco i ghetti neri e arde la lotta per i diritti civili. Se pacifica convivenza ci sarà mai, negli Stati Uniti, non avverrà al prezzo di  cancellare le proprie origini: nel romanzo accadrà a Dwight di dover recuperare l’Ignazio che era, e con lui tutta la famiglia Di Palermo.

Anche se Le strade d’oro deve registrare il fallimento del melting pot, ne esce salva l’intensità e l’eloquenza della saga famigliare, che racconta quattro generazioni di italo-americani assolutamente credibili, senza fronzoli né stereotipi pseudo-folklorici, offrendoci una vera e propria epopea della nostra emigrazione negli Stati Uniti.

La nostra editoria se ne accorge a quasi mezzo secolo dalla sua prima pubblicazione, nonostante il fatto che già nel 2019 il piccolo comune di Ruvo Del Monte in provincia di Potenza, dal quale venivano i parenti materni di Hunter/Lombrino, ne avessero curato la traduzione: ora che i problemi dell’immigrazione tornano a una drammatica attualità, la prospettiva invertita offerta dal romanzo potrebbe funzionare da antidoto alle molte, tossiche retoriche in circolazione.

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