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Euskadi, l’altra Europa

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Autodeterminazione Diritto a decidere: è questo il fulcro della nuova strategia per il processo di pace nei Paesi baschi della sinistra indipendentista di Bildu. Una barricata popolare alla Troika e una speranza per la democrazia. Il programma: nazionalismo e giustizia sociale, socialismo e lotta al capitalismo

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 7 settembre 2014

Camminando per le Zazpi Kaleak – le sette strade più antiche di Bilbao – famigliole di turisti soprattutto europee si perdono tra le strette vie mattonate. Non ci vuol molto a capire che non si è in Spagna. E se non bastassero i cartelli in euskera – la lingua basca dalle misteriose origini e tra le più antiche parlate in Europa – ora militanti della sinistra indipendentista distribuiscono appositi volantini per turisti: «Benvenuti in Euskal Herria, il paese dei baschi e delle basche». Dopo una breve descrizione del periodo storico che vivono gli abitanti della montuosa regione a cavallo tra lo Stato spagnolo e quello francese, si invitano i viaggiatori a raccontare in patria che «in quest’angolo d’Europa c’è un popolo che lotta per i suoi diritti e per la pace».

La Conferenza internazionale per la pace di Aiete (ottobre 2011), come il successivo annuncio con cui Eta ha posto fine alla sua attività armata lunga mezzo secolo, ha aperto un nuovo ciclo politico: quello della «risoluzione del conflitto». Molte tra le organizzazioni della sinistra indipendentista, riuniti nella coalizione Bildu, vedono in questa nuova fase la possibilità di incanalare il conflitto verso uno scenario di pace; essendoci – dicono – le circostanze storiche per raggiungere l’indipendenza mediante il confronto democratico, la partecipazione popolare e la costruzione di alleanze politiche internazionali. Da paciere, Bildu – che vuol dire «unione» – chiede ai due Stati il ritorno in Euskal Herria dei circa 500 prigionieri politici baschi “dispersi” nelle carceri spagnole e francesi: un primo passo verso l’amnistia. E anche: l’abolizione di strutture giuridiche d’eccezione, antidemocratiche, frutto e strumento dell’attitudine repressiva verso la “questione basca”; il riconoscimento, la riconciliazione e la riparazione di tutte le vittime delle molteplici violenze generate dal conflitto; la fine di ogni azione violenta.

Ma se negli ultimi tempi il fronte indipendentista ha fatto sostanziali passi in avanti in questo senso, le principali forze politiche spagnole e francesi boicottano il processo di dialogo: Eta – affermano – non ha la legittimità di trattare e di porre condizioni, perché ha sempre rappresentato una minima parte della società basca. Per capirci, pochi giorni fa, il 20 luglio 2014, Eta ha annunciato lo smantellamento delle strutture organizzative derivate dalla lotta armata e, solo dieci giorni dopo, l’Audencia Nacional (sezione del tribunale spagnolo) oltre a ordinare il sequestro di più di cento “herriko tabernas“, bar autogestiti e centri d’attività sociale e culturale, ha emesso condanne fino a tre anni di prigione per venti militanti e dirigenti politici baschi rei di «integrazione o collaborazione con organizzazioni terroriste». Una settimana prima le grandi manovre dell’esercito spagnolo avevano infastidito i cittadini di un piccolo paese vicino a Bilbao, e provocato lo sdegno delle istituzioni comunali.

Per Sortu – il partito che incarna l’anima socialista nella coalizione – si deve continuare il cammino per la pace, anche se unilateralmente. Preso atto dell’indisposizione a trattare degli Stati, Sortu vuole disegnare una nuova strategia per la consolidazione di uno Stato basco, indipendente, socialista e femminista: una strategia di liberazione nazionale e sociale che sia risultato della libera decisione democratica della cittadinanza basca. Si può fare dell’unilateralità uno strumento per accumulare forze, – dicono -, rafforzando il processo popolare e condividendo passo dopo passo obiettivi tattici con le istituzioni basche e la cittadinanza in generale. In questo nuovo contesto di confronto democratico occorre mettere pressione alle parti politiche, praticare disobbedienza popolare e istituzionale. Quel muro di giovani che lo scorso ottobre si frapponeva pacificamente tra la polizia basca e il giovane militante Luis Goñi – volevano impedirne l’arresto in seguito alla condanna “politica” a sei anni di reclusione – è un chiaro esempio della disobbedienza nella nuova strategia.

Per lo Stato spagnolo le aspirazioni sovraniste dei catalani sono sempre più una spina nel fianco. E la sinistra basca vuole colpire gli Stati lì dove sono più deboli, sul piano politico. La colonna vertebrale di questa nuova strategia è il «diritto a decidere» dei popoli. Perché – spiegano da Sortu – essendo una rivendicazione democratica riunisce maggioranze intorno alla sua difesa; perché rafforza la posizione politica di chi lo difende mentre debilita chi lo reprime; e perché più in là della mera rivendicazione apre da subito piccole possibilità di sviluppare nella pratica questo stesso diritto. Questa scelta determina un cambio di paradigma storico: c’è una differenza sostanziale tra il diritto all’autodeterminazione e il diritto a decidere. Il diritto di un popolo ad autodeterminarsi irruppe nel sistema internazionale in un periodo storico caratterizzato da processi di decolonizzazione e conflitti internazionali, ed era concesso a paesi cui era internazionalmente riconosciuto lo status di colonie. Il diritto a decidere è una rivendicazione di tutt’altro genere. Lascia indietro le storiche controversie sull’esistenza o no di una relazione coloniale e si poggia invece sulla capacità democratica esistente, sulla volontà popolare di decidere del proprio futuro.

Per la Via Basca al socialismo di Sortu la sfida più grande sarà rafforzare quelli che sono considerati tre agenti principali del processo: in primo luogo il partito stesso; poi il movimento giovanile Ernai; e Lab: il sindacato di classe. Tra i giovani militanti c’è una forte spinta per posizioni più radicali. In una società che ha perso la sua forte connotazione industriale si deve tornare a un radicamento sindacale nei posti di lavoro. Storicamente la concentrazione operaia – particolarmente intensa nella Bizcaya – aveva fatto sì che germogliassero le prime organizzazioni socialiste. Oggi è sostanzialmente una «piccola imprenditoria paternalista» – con una media di 10-15 dipendenti – a sfruttare la classe lavoratrice basca.

In una comunità come quella basca, per storia e vicissitudini fortemente politicizzata, negli spazi reali e virtuali della sinistra il dibattito è acceso. La nuova Via Basca provoca reazioni aspramente discordanti: c’è chi lo appoggia con convinzione, chi con molti dubbi, e poi ci sono quelli più scettici, che non ci credono proprio. I punti più controversi, o se si vuole più deboli, della nuova strategia sono essenzialmente due.

Molti argomentano che l’unilateralità del processo di pace ne mette in crisi l’esistenza stessa, manifestando l’inconciliabilità di parti irrimediabilmente antagoniste. Con lo scopo di mettere pressione attraverso la Comunità Internazionale Bildu sta puntando sulla creazione di un’alleanza tra «sinistre per l’indipendenza». Negli ultimi mesi sono sempre più recenti – ma poco proficue – le visite dei mediatori: Jonathan Powell, ex ministro laburista che condusse il dialogo tra Regno Unito e Irlanda del Nord, e Martin Mc Guinness, ministro nordirlandese del Sinn Féin. Certo che quando si tratta di appoggio internazionale in casi come questo vengono a mente le recenti parole di Eduardo Galeano sul Medioriente: «La Comunità internazionale è il nome artistico che usano gli Usa per le loro performance teatrali».

Comunque la questione più profonda è un’altra. Il programma di Bildu è incentrato sulla necessità di essere indipendenti per costruire un sistema con giustizia sociale. Ma è possibile separare la questione sociale da quella nazionale e pensare che una sia più importante dell’altra? A proposito, durante la sua recente visita nei Paesi Baschi, lo scienziato cubano Jesús Pastor García ha voluto ricordare a un movimento da sempre ispirato all’anticolonialismo del Terzo Mondo che la base dell’indipendenza cubana è il socialismo. Come relazionarsi allora con la borghesia autoctona, alleata o nemica del processo? Se lo Stato è la forma politica del Capitale, come cambiarne i tratti senza scalfirne l’essenza? Per fare un esempio, sulla privatizzazione di Kutxabank (un’importante entità bancaria basca) si sta spaccando quello che alcuni considerano una «alleanza sovranista». Bildu accusa il Partito nazionalista basco (Pnv) – che “da destra” ha aderito a diverse manifestazioni per il diritto a decidere e partecipa al cda della banca – di voler aprire le porte dell’istituto al capitale speculativo.

Al di là delle frizioni e dei problemi, presenti in qualsiasi processo, non è difficile fiutare che, nell’odierno dilagare dell’etica consumista e dello spirito liberista, il nazionalismo basco – sempre sensibile alla giustizia sociale e al rispetto della cultura popolare – è una manifestazione imprevista nella globalizzazione capitalista. Una barricata popolare nell’Europa della Troika e una speranza per la democrazia.

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