Europa, morte e spaesamento, il ground zero di «Desert Suite»
Venezia 81 Il nuovo film di Fabrizio Ferraro presentato alle Notti Veneziane. Un cinema indipendente, poetico e politico, portato avanti con determinazione
Venezia 81 Il nuovo film di Fabrizio Ferraro presentato alle Notti Veneziane. Un cinema indipendente, poetico e politico, portato avanti con determinazione
Quello di Fabrizio Ferraro è un cinema indipendente, progetto perseguito con ostinata passione e soprattutto anomalo, intendendo come anomalia le forme di una narrazione che cerca nel suo svolgersi il rapporto costante con le immagini, con la loro geometria di senso, cosa che in tempi di script per un cinema dei «grandi temi» appare quasi una rivoluzione. Questo però non significa che le sue siano storie arroganti, i «dispositivi» che costruisce sono al contrario aperti, interrogano e lasciano fluttuare lo sguardo di chi li fruisce invece di guidarlo lungo sentieri determinati; e si volgono al pensiero filosofico, Benjamin per primo che è un po’ il motivo ricorrente nei suoi film, insieme a quell’ immaginario con cui si pone in dialogo più che citare.
ROMANO, studi di filosofia del linguaggio, organizzatore culturale oltre che regista, Ferraro ha scelto un territorio che rimane riconoscibile nelle sue variazioni dai primi film (come Je suis Simone, 2009): la cifra poetica di un cinema politico (e in qualche modo artigianale, condiviso con un collettivo di persone) che cerca un confronto con la realtà per svelarne conflitti e sentimenti sui bordi dell’invisibile. Eccoci dunque in questo Desert Suite – nel programma delle Notti veneziane – che nelle intenzioni dell’autore dialoga col precedente Wanted presentato lo scorso anno in concorso al Festival di Roma – i due film usciranno insieme nelle prossime settimane. Di cosa si tratta? C’è un giovane, un viaggiatore che attraversa l’Europa, figura di una mitologia contemporanea che ha perduto il sogno di una meta. Dalla vendemmia in Francia, fra vigne impoverite dall’aridità della terra e da un vento che stordisce umani e animali come in un’apocalisse, passa a Bruxelles, il «cuore» della geografia istituzionale europea, incontra una ragazza, continua a muoversi fino a Rotterdam dove si chiude in un grattacielo di lusso, e in quella verticalità inizia a esercitare un potere di vita e di morte.
LA DROGA, ogni possibile sostanza lo accompagna, unisce la sua esistenza a quella delle ragazze che incontra, e più che stordimento nella strana atmosfera di cui si perdono i contatti con quanto c’è fuori, provoca un sentimento costante di ambiguità. Chi è questo giovane uomo isolato nella musica delle sue cuffie, che appare indifferente, non lascia intendere nulla di sé, e che dalla dolcezza passa all’omicidio? E quelle due ragazze, le «vittime», a cosa allude la loro presenza? C’è qualcosa, pure se forse in segno capovolto, dei personaggi bressoniani nel movimento dei suoi passi, in quella sottrazione a un mondo che ne replica la violenza profonda. L’Europa del presente, di ricchezze e miserie, delle utopie impossibili e di una verticalità al cui interno ogni cosa sembra diventare lecita. Di un pensiero collettivo svanito, delle decisioni che ignorano il «basso» nel vanto di un potere di ricchezza che sfida persino se stesso. Desert suite è un’opera molteplice, il cui significato si affida alla texture delle immagini, ai primi piani e alla fisicità dei suoi interpreti (Gianmaria D’Alessandro, Rachele Roggi, Cécile Delamere), a gesti che si fanno racconto al di là delle parole, e si scontrano con la dimensione immateriale delle relazioni oggi, con quella dolcezza che sembra essere divenuta impossibile.
C’è dentro questa storia di oscurità il respiro di un tempo in cui si specchia il nostro, nel movimento che traccia la geografia del presente sui bordi, per dare voce a un conflitto che oltre il quotidiano riguarda la sostanza stessa della condizione umana.
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